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Musica per i golosi

a cura di Francesca Mineo

 

 

 


Pat Metheny

L'intervista

Milano. Attivo da ben cinque lustri sulla scena del jazz (jazz?) più aperto e innovativo (la data di nascita ufficiale del suo ormai leggendario Group risale addirittura al 1977), detentore di un record alquanto bizzarro, e certamente degno di finire nel Guinness dei primati (è l’unico ad aver vinto la bellezza di sette Grammy Awards consecutivi per altrettanti dischi), il poliedrico chitarrista Pat Metheny fa la sua comparsa la mattina di martedì 29 gennaio, a mezzogiorno in punto, nella saletta moquettata di un raffinatissimo albergo milanese. 

E’ sorridente, affabile e gioviale, come suo solito. E dice subito che è qui presentare il suo ultimo disco - “Speaking of now”, Wea, in uscita l’8 febbraio prossimo - e il suo prossimo tour mondiale (la partenza è fissata per metà febbraio, negli Stati Uniti, mentre in Italia arriverà ai primi di giugno), ma anche, esplicitamente, per dire tutto il bene possibile dell’Italia: «Lo sanno tutti che io amo esibirmi soprattutto nei paesi latini, dove il pubblico è più caldo ed entusiasta.

Proprio per questo, in un’ipotetica Top Five dei miei siti prediletti, metto nell’ordine il Portogallo, il Brasile e l’Argentina, e poi, a sorpresa, la Polonia, per la straordinaria competenza musicale del suo pubblico. Ma, come ho già detto tante volte, l’Italia continua a essere al top del top! Ce l’ho nel cuore!»

Grazie mille, mister Metheny! Ma ci vuol dire come è nato questo disco?
«Molto volentieri. Come già avrete avuto modo di notare, accanto ai componenti “storici” del mio Group, il tastierista Lyle Mays e il bassista Steve Rodby, ci sono ora tre musicisti nuovi: il percussionista Antonio Sanchez, l’altro percussionista e vocalista Richard Bona, il trombettista (e vocalista) Cuong Vu, nato in Vietnam e trasferitosi giovanissimo negli States, subito dopo la caduta di Saigon. E’ la prima volta che nel Group sono presenti strumentisti di una nuova generazione, di una generazione successiva alla mia e a quella di Lyle e Steve, voglio dire, e già questo è un elemento di grandissimo interesse. Ma ancor più interessante è il fatto che Antonio, Richard e Cuo sono di una bravura straordinaria._Mi hanno detto di essere cresciuti ascoltando la musica del Pat Metheny Group, di averla ormai acquisita nel Dna, e questa per me è una gratificazione formidabile, credetemi! Ma ancor più bello è vedere come il loro entusiasmo, la loro voglia di fare, hanno influito sul mio modo di comporre musica. Wow... è fantastico!».

Ci chiarisce meglio il concetto, per favore?
«Subito. Prima ancora di inserirli nell’organico del Group, avevo stabilito con Lyle Mays le coordinate fondamentali di questo nuovo disco: dovevano ruotare attorno alla melodia, al feeling, alle emozioni che la musica poteva direttamente evocare. Esattamente come era successo anni fa, ai tempi dei miei primi album, e come invece non era accaduto nei miei ultimi due dischi, tutti giocati sul “groove” e sull’orchestrazione. Bene, devo ammettere che l’enorme entusiasmo dei miei tre nuovi compagni d’avventura, il loro formidabile “senso di squadra”, mi hanno molto aiutato nell’enfatizzare al massimo il lavoro sullo svoiluppo melodico... Il lavoro sulle forme, per dirla in due parole... Lo ripeto, sono stati straordinari!».

A questo punto è proprio necessario chiederle come siano entrati nella sua sfera d’azione. Cominciamo da Antonio Sanchez...
«Comincio col dire che Antonio è sicuramente uno dei migliori talenti attualmente in circolazione. L’ho conosciuto a Torino qualche tempo fa, quando con il suo gruppo faceva da “supporter” a un mio concerto. Poi l’ho ritrovato a New York, e lì abbiamo cominciato a suonare insieme, in duo. Mi sono trovato talmente bene con lui, che subito ho pensato di trasformare il duo in un quartetto, con l’aggiunta dei miei soliti compagni Lyle e Steve. Ma poi ho capito che anche questa soluzione non era sufficiente...».

Ed è a questo punto che è entrato in scena Richard Bona...
«Già. Io lo conoscevo da tempo, e lo stimavo davvero tantissimo._Così gli ho chiesto di segnalarmi se, nel nuovo giro musicale newyorkese, conosceva la persona giusta per me e per il mio progetto. Lui mi ha guardato dritto negli occhi, e poi mi ha detto: “Certo che la conosco. Sono io!”. Io non credevo alle miei orecchie, perché Richard era già molto importante a quei tempi: era un vero e proprio “band leader”, e perdipiù suonava il basso, mentre io avevo bisogno di un altro percussionista. Ma lui ha insistito moltissimo, e mi ha detto che suonare le percussioni era sempre stato il suo sogno... Così l’ho provato e... WOW!... è stato fantastico! Non solo come percussionista, ma anche come cantante!!!».

E poi è arrivato il turno di Cuong Vu...
«Già, e lì la sorpresa è stata anche maggiore, se possibile. Una notte stavo ascoltando la radio e suonava un trio con tromba, basso elettrico e batteria. Una musica strabiliante, che andava molto oltre i confini del jazz canonico... Così ho chiamato Cuong per complimentarmi, e lui, di rimando, mi ha chiesto se poteva entrare nel mio gruppo... Sembra una favola, ma le cose sono andate proprio così! E io ne sono tremendamente felice!».

Dunque, è stato fortunato...
«Moltissimo, e devo ammettere che lo sono da sempre. In giro per il mondo esistono moltissimi grandi musicisti, ma ben pochi hanno la fortuna di poter fare un disco ogni anno, e organizzare tournée di un centinaio di date in giro per il mondo, ed essere citati in continuazione come esempi viventi di innovazione e di ricerca sul proprio strumento. A me queste cose succedono regolarmente da più di vent’anni, e questa è la mia grande, enorme fortuna!».

(Roberto Gatti) 

 

 

 


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