venticinque anni fa, uno dei più visionari matrimoni musicali fra l’Est e l’Ovest
del pianeta: fra il “karnatak” dei padri e il rock dei figli, fra
l’improvvisazione torrenziale del jazz senza schemi e quella,
rigorosissima, della musica classica indiana.
Shakti,
come dire l’energia femminile di Lord Shiva, si chiamava quel
matrimonio, ed era tanto ben assortito da sembrare anche il primo in
assoluto. Ma così non era, visto che, in precedenza, un qualcosa di
lontanamente analogo avevano fatto Yusef Lateef utilizzando a più
riprese lo “shehenaï” (vale a dire l’oboe suonato nell’India
del nord), e Ravi Shankar invitando Bud Shank a improvvisare con lui
(e partecipando poi, in prima persona, a svariatissimi festival pop),
e John Coltrane incidendo “India” e ricorrendo a più riprese alla
scala pentatonica, e Miles Davis inserendo tablas e sitar nelle sue
primissime sperimentazioni di jazz elettrico, e Don Cherry e Ornette
Coleman incontrando, rispettivamente, i Dagar Brothers e Badal Roy.
Eppure, anche se non possedeva tutti interi i crismi della
primogenitura, quel connubio propiziato da McLaughlin e Hussain, con l’apporto
determinante del violinista Shankar (nessun legame di parentela con il
più famoso Ravi, ma, in compenso, un’eloquenza strumentale a dir
poco superba), aveva nel suo Dna un gene unico e irripetibile. Forse
insito nelle tre virtù - intelligenza creativa, bellezza e potere -
ricordate in precedenza: che sono poi quelle di stretta competenza
della sposa di Shiva.
Forse, più probabilmente, benedetto da uno “stato di grazia” di
natura superiore, capace di dar vita a tre album fondamentali come “Shakti”,
“Handful of beauty” e “Natural elements”, e, soprattutto, di
generare dalle sue viscere un luminosissimo esempio di World Music
ante litteram.
«Un
esperimento molto naturale e spontaneo, esclusivamente acustico, per
nulla preordinato da interessi mercantili ma unicamente dettato dalla
nostra sensibilità», ricorda ora, molto opportunamente, Zakir
Hussain.
Venticinque
anni più tardi, e pare quasi un secolo, quella stessa magia ritorna a
farsi sentire. Con un album doppio, “Remeber Shakti” (Verve), che
è un autentico omaggio a quella folgorante intuizione.
Con un tour che dopo aver girato in lungo e in largo l’Inghilterra,
quest’anno ha trionfalmente toccato anche il Montreux Jazz Festival,
in Svizzera, e la rassegna di Villa Arconati, in Italia.
Con una formazione che, accanto ai membri fondatori McLaughlin e
Hussain, ora annovera i leggendari (è proprio il caso di dirlo) Vikku
Vinayakram al “ghatam” (vale a dire quella sorta di anfora di
porcellana utilizzata come supporto percussivo) e Hariprasad Chaurasia
al “bansouri”: che è poi il flauto traverso di legno che la
mitologia indiana sempre associa alle immagini di Lord Krishna.
Con una concezione della musica che è un meraviglioso esempio di yin
e di yang, di unità degli opposti, di antico e modernissimo al tempo
stesso: dove i quattro si muovono come altrettanti pesci nell’acqua,
e si trovano così naturalmente a loro agio in quell’ambiente da non
porsi alcun limite di tempo per l’improvvisazione collettiva.
E
non sorprende dunque che “Mukti”, uno dei cinque brani che
compongono “Remember Shakti”, possa durare, da solo, la bellezza
di 63 minuti abbondanti. Roba da fare invidia perfino al John Coltrane
più estatico e torrenziale! Dice il Padre Fondatore, John McLaughlin,
che «suonare con questi meravigliosi musicisti è per me un onore
grandissimo, e un piacere senza eguali». E se non puntualizza che
proprio da lui, allora chitarrista di Miles Davis, partì l’idea di
inserire tablas e sitar in quel meraviglioso “combo” elettrico, è
solo perché è un gentleman scozzese di pochissime parole e di
grandissima discrezione.
E
allora tocca a Zakir Hussain tesserne le lodi sperticate. Dicendo per
esempio che questo sfolgorante métissage fra Est e Ovest non sarebbe
mai andato in porto, «se John non ci avesse buttato dentro tutto il
suo coraggio, tutta la sua testardaggine e tutta la sua credibilità»
E dice ancora che «l’incontro fra il jazz e l’India, pur se
attivo ormai da più di vent’anni, mai come ora è stato vivo e
vegeto: con quei concerti e festival disseminati un po’ in tutto il
mondo, che ne cantano le lodi e lo stanno trasformando in un fenomeno
a 360 gradi».
E infine conclude affermando che ciò che maggiormente lo entusiasma,
di McLaughlin, è quel suo essere un “drummer’s musician”, vale
a dire un musicista capace di pensare in termini percussivi, oltre che
melodici e armonici: «come se fosse stato un virtuoso di tablas o di
“ghatam”, in una delle sue (tante) vite precedenti». E allora
vuoi vedere che il miracolo di Shakti si può spiegare, nella sua
essenza più profonda, ricorrendo alla teoria induista della
reincarnazione? Sarebbe proprio carino, vi pare? Om Nama Shivaya!
|