nè cordiali
saluti al secolo in via di estinzione, come hanno fatto tanti
altri colleghi suoi (qualche nome a caso? Lucio Dalla, Antonello
Venditti, Luciano Ligabue...).Ma, saggiamente, un’originalissima
rilettura di canzoni che nei
Fabulous
Sixties o giù di lì sono state a un passo dal diventare
"evergreen", e poi si sono accontentate di rimanere un
po’ aliene e sghembe: drasticamente devianti rispetto ai gusti
correnti. Canzoni che lui già canticchiava fra sè e sè da
vent’anni almeno, e che ogni tanto infilava a mo’ di citazioni
dentro i suoi primi concerti pubblici: come quando nel 1975, al
"Festival del proletariato giovanile" organizzato al
Parco Lambro di Milano dal mensile Re Nudo, inserì a sorpresa un
frammento di "Sapore di sale" nel corpo di
un’improvvisazione alquanto dadaista, originalmente pensata per
sintetizzatore e vocoder. Canzoni che ora ritornano a noi, quasi a
solleticarci le emozioni provate al tempo dei nostri vent’anni
(e magari anche meno), grazie a un’operazione raffinatissima
denominata "Fleur(s)" (Mercury): con l’apporto
determinante di complici eccellenti quali Michele Fedrigotti, al
pianoforte, e il Nuovo Quartetto Italiano, agli archi.Che
affrontano i temi con una levità tutta cameristica, e permettono
a
Battiato di
affermare un po’ sibillinamente: "A volte è proprio
tornando indietro nel tempo che il futuro diventa più chiaro. E
per me è stato molto importante, prima di affrontare l’impegno
di un nuovo disco tutto mio, regredire alle magnifiche
consolazioni di questi inebrianti "fiori"
musicali".
Parole
sagge. Soprattutto quelle arroccate attorno a quel suo
condivisibilissimo desiderio di regredire alle "magnifiche
consolazioni" di molto tempo addietro.Tutte opzioni molto
psicanalitiche, che, proprio per questo, vengono generalmente
trattate con le pinze, se non rimosse del tutto, in ogni discorso
di carattere musicale: perché ritenute troppo legate alla
sibillina volatilità delle emozioni. Ma qui, per fortuna, vale il
presupposto uguale e contrario. E forse proprio per questo sono
soltanto due le canzoni riconducibili alla pregiata
"ditta" Battiato-Sgalambro: "Medievale" e
"Invito al viaggio". Le altre, invece, sono opera del
genio di Fabrizio De Andrè ("La canzone dell’amore
perduto" e "Amore che vieni, amore che vai"), di
Charles Trenet ("Que rest-t-il des nos amours"), di
Charles Aznavour ("Ed io fra di voi"), di Jacques Brel
("La chanson des vieux amants"), perfino di
Jagger-Richards ("Ruby tuesday"). E poi, delizia nelle
delizie, ci sono tre canzoni generalmente classificate come
"minori" nel canzoniere di casa, ma ugualmente capaci di
far accapponare la pelle anche a chi le ascolta per la primissima
volta: una è di Richard Anthony, "J’entends siffler le
train", le altre due del grande (e misconosciuto) Sergio
Endrigo, "Aria di neve" e "Te lo leggo negli
occhi", lanciata più di trent’anni fa da Dino. E queste
sono le (stringate) informazioni necessarie a capire ciò che si
annida sotto il profumatissimo titolo di "Fleur(s)".
Da
questo punto in poi, invece, i commenti possono divergere in
maniera anche radicale. Il "battiatiano convinto" (e noi
da sempre apparteniamo a questa stravagantissima
"nomenklatura") non potrà infatti fare a meno di gioire
nel constatare come il Grande Siculo riesca a sussumere sotto il
suo personalissimo stile anche autori (e prodotti) così
radicalmente distanti da lui. E questo, ovviamente, accade
soltanto ai Sommi della musica d’oggidì: come per esempio, si
parva licet, lo Hendrix capace di rileggere al meglio il Dylan di
"All along the watchtower", oppure i
Chieftains
che convocano strepitose "guest artist" per le loro
incisioni (Mick Jagger, Sting, Van Morrison, Sinead O’Connor,
Joni Mitchell, eccetera) e poi le fanno cantare a loro perfetta
immagine e somiglianza. Al contrario, chi "battiatiano
convinto" non è, non è mai stato nè mai sarà, sentirà
montare dentro di sè un’irritazione profonda nell’ascoltare
"La canzone dell’amore perduto" sussurrata da una voce
quasi straniata, in luogo di quella calda e maschia del grande
Fabrizio. Oppure "Ed io fra di voi" deprivata di tutta
l’angoscia panica del vibrato singhiozzante di Charles Aznavour.Oppure ancora "Aria di neve", canzone depressa
e disperata per eccellenza, riletta da un artista profondamente
ottimista e positivo: l’esatto contrario, insomma, del buon
Sergio Endrigo. Ma questo, per parafrasare Gianni Minà, è
proprio "il bello del remake". Apriamo il dibattito. |