Potrà
sembrare strano (o forse no) sistemare in epigrafe a questo breve
scritto una citazione di Albert Ayler: il grand'uomo nato a Cleveland,
Ohio, il 13 luglio 1936, e ritrovato morto a New York, nelle acque
gelide dell'East River, il 25 novembre 1970. Potrà sembrare strano -
dicevamo - questo piccolissimo espediente letterario, ma a noi non lo
pare affatto: perché la parabola artistico-esistenziale di Ayler è,
in fin dei conti, la rappresentazione più perfetta del trapasso -
doloroso, affannato, tragico, disperato - fra il Sogno d'Amore degli
anni Sessanta e la Crudezza esasperata dei Settanta.
Non
occorre essere studiosi di arte nero-americana per capire che - come
scrivono Carles e Comolli nel loro "Dizionario jazz" - la
musica di Ayler è "un luogo di esposizione di contraddizioni non
risolte e di interi paradossi". Da una parte c'è, infatti, il
suono. Quel suono di sassofono tenore che fece sognare John Coltrane,
e che riassume in sé la potenza, la violenza, la durezza (grazie
anche all'uso delle ance di plastica più "dure" esistenti
in commercio), la pienezza e l'immediatezza: tutte doti ben presenti
in quel periodo irripetibile. Dall'altra parte (meglio: dal profondo
dell'anima) ecco invece salire in superficie la sincerità (e anche lo
strazio, inteso nel senso più pieno e nobile del termine) della
parola di pace, di amore, di spiritualità: spesso gridata con una
rabbia (espressionistica) che non ha pari nel jazz, e che
letteralmente deflagra dalle forme arcaiche degli spiritual, delle
marcette militari eseguite dalle fanfare, delle litanie salmodiate,
perfino dei canti chiesastici. Proprio in questo senso è interessante
il "New ghosts" del 1968 (5 e 6 settembre, per gli amanti
delle statistiche), rispetto all'altrettanto indimenticabile
"Ghosts" del 1965. Perché dove prima c'era soltanto
(pardon!) la destrutturazione e la distruzione del materiale
armonico-melodico tramandato dalla tradizione jazzistica precedente
l'epopea del free, ora compare una sorta di "sintesi
suprema": c'è il messaggio (di pace, di amore, di libertà e di
fraternità) sedimentato nel corso di un intero decennio, che prende
corpo nel titolo delle varie songs ("Message from Albert",
"New generation", "Heart love", "Free at
last"), e che, soprattutto, utilizza l'inimitabile voce di Ayler
per manifestarsi al cospetto del mondo intero. Quasi a voler
sottolineare - ancora una volta, disperatamente - il suo diritto di
esistere e di sopravvivere.
Sopravvivere,
sì - avete letto bene. Pare infatti del tutto condivisibile quel che
scriveva Andrea Barbato nel 1981, in un saggio pubblicato nel volume
collettivo "Il sogno degli anni '60" (Savelli, ora
ristampato da Feltrinelli): "Me le ricordo come fosse ieri, le
lacrime sul viso di Frank Manikewicz alle due di mattina di quel 5
giugno 1968, nell'auditorium dell'ospedale Good Samaritan. S'era
avvicinato a un piccolo palco, nel silenzio dei reporter, e tutti
avevano capito, e avevano ascoltato in silenzio. 'Voglio fare una
breve dichiarazione. Il senatore Robert Kennedy è morto all'1,44 di
stamane. Aveva 42 anni'. Non disse altro, nessuno disse altro. Anche
la gente che aspettava alle uscite, accanto agli agenti di guardia, si
sciolse in silenzio".
"L'America
degli anni Sessanta era finita, per me, poche ore prima, in una notte
di giugno, in un albergo un po' sontuoso e un po' volgare del Wilshire
Boulevard di Los Angeles. E non perchè Bob Kennedy, che in quella
notte e in quel luogo era stato colpito a morte, fosse il depositario
dei significati di un decennio ancora incompiuto: fra l'altro, prima
di lui, in quegli stessi anni, erano già morti di morte violenta suo
fratello John, Martin Luther King, Medgar Evers e Malcolm X. No, non
per quello. Ma proprio perchè all'improvviso tutto parve inutile, il
fervore e le speranze, il dissenso e la passione, e l'idea stessa che
tutto quel magma di rivolte generazionali e di inquietudini politiche
e razziali potesse diventare un progetto. Nemmeno dopo le fucilate di
Dallas s'era avuta l'impressione del tramonto definitivo di
quell'America. Ma dopo i colpi di pistola dell'hotel Ambassador, sì:
era davvero finita".
La
parvenza di inutilità di cui parla Barbato è una categoria
importante (e non riconducibile ai soli Stati Uniti). E' probabilmente
la stessa contro cui Ayler continua a lanciare, con il parossismo e il
frenetico fervore di un irriducibile, l'Utopia del suo messaggio:
"E il giorno e la notte se ne andranno, ma l'Amore esisterà
sempre. E il giorno e la notte se ne andranno, ma l'Amore vincerà
sempre". E' probabilmente la medesima contro cui Jimi Hendrix
scaglia la ferocia lancinante delle cacofonie chitarristiche di
"Star spangled banner". E non importa che la metafora della
morte sia già in agguato: resa palpabile e visibile, nel film
"Woodstock" (girato fra il 21 e il 23 agosto del 1969, e
proiettato in anteprima a Hollywood il 1° aprile dell'anno
successivo: vale a dire agli inizi della Nuova Era), dall'enorme
cumulo di rifiuti e di cartacce svolazzanti che contrappuntano lo
splendore vitalistico dell'esibizione di Jimi sul palco. Quel che
conta, per due irriducibili come loro, è di inviare al mondo una
parola di speranza e, soprattutto, di resistenza: per non disperdere
completamente un patrimonio coltivato in anni in cui tutto pareva a
portata di mano, assolutamente possibile e facilmente raggiungibile;
per impedire che la Musica Giovane degli anni Sessanta, sia essa rock
oppure jazz, si trasformi fin da subito in un qualcosa di
consolatorio, di alienato, di asettico ed estraniato. Oppure - per
dirla con le parole utilizzate da Thomas Pynchon in un bel passo del
suo libro "Vineland" - in "un modo come un altro per
incatenare la nostra attenzione, sicché quella bella certezza che
avevamo conquistato comincia ormai a sbiadire e, tra non molto,
riusciranno di nuovo a convincerci che tutti dobbiamo morire davvero.
E ci inculeranno di nuovo" (e intanto, fuori, l'America verde di
una gioventù non lontana si è già trasformata: è diventata
"uno Stato di crumiri e di polizia").
Sia
quel che sia, c'è davvero qualcosa di estremamente emblematico e di
inequivocabilmente evocativo nelle "morti eccellenti" che si
susseguono a raffica, agli albori della Nuova Era: Alan "Blind
Owl" Wilson, leader dei Canned Heat, il 3 settembre 1970; Jimi
Hendrix a Londra, il 18 settembre 1970; Janis Joplin a Hollywood, il 4
ottobre dello stesso anno; Albert Ayler a New York, il 25 novembre;
Jim Morrison a Parigi, il 3 luglio 1971. E' come se, tutt'a un tratto,
alcune fra le voci migliori prodotte dal decennio dell'Utopia al
Potere avessero preferito scomparire, piuttosto che consegnarsi
sconfitte al disastro dei propri ideali. E' come se la Stagione
dell'Amore, visti inutili tutti gli sforzi per imporre al mondo intero
le proprie ragioni e le proprie passioni, avesse voluto accomiatarsi
con un qualcosa di molto simile al canto del cigno: disperato, certo,
ma anche consapevole di non aver vissuto invano.
Infatti,
attorno a questi capisaldi (i dadaisti ne aggiungono anche un quinto:
quello relativo alla doppia sconfitta, in Campionato e Coppa dei
Campioni, nel maggio del 1967, della Grande Inter di Helenio Herrera:
inequivocabile segno premonitore che il '68 era morto ancor prima di
nascere...), l'avvento della Nuova Era si delinea lungo direttrici
assai più caute e circospette del prevedibile. Proprio in virtù
dell'insospettabile, sublime potenza di quel canto del cigno, per
tutto il 1970 la Stagione dell'Amore sembra avere un sussulto: pare in
grado di esorcizzare le morti vecchie e nuove (per esempio quella dei
quattro studenti della Kent State University, assassinati dalla
polizia il 4 maggio) dei suoi figli migliori. Non a caso, le cronache
del periodo parlano di un Festival - quello dell'isola di Wight,
celebrato fra il 26 e il 28 agosto - ancora abbarbicato all'etica del
binomio "Peace & Love"; e narrano di un concerto
anti-nucleare celebrato allo Shea Stadium di New York, il 6 agosto, in
occasione del 25° anniversario della distruzione di Hiroshima; e
affermano che i "cult movies" dell'anno - i vari
"Piccolo grande uomo" e "Love story",
"M.A.S.H.", "Woodstock" e "Zabriskie
Point" - si muovono tutti all'interno di una dimensione
pensosamente umanistica, romanticamente hippy.
Non
così il 1971. Già, neppur tanto paradossalmente, gli amanti del
simbolismo avevano avuto il sospetto che la scena finale di
"Zabriskie Point" - quella in cui una lussuosissima villa
esplode nel bel mezzo del deserto - non rappresentasse la
disintegrazione del materialismo dell'"American way of
life": ma, al contrario, prefigurasse il disastro, culturale e
anche fisico, di coloro che, secondo Walter Benjamin, si erano assunti
il compito di "far saltare il continuum della storia". E
infatti, tanto per non smentire la foschezza di simili previsioni
(come direbbe la Legge di Murphy: "se qualcosa può andar male,
lo farà"), il 1971 si inaugura con una morte simbolica di
fondamentale impatto emotivo: quella perpetrata da Paul McCartney, in
maniera assolutamente legale, al mito dei Beatles. E poi prosegue il
suo disegno destabilizzante - contro l'atteggiamento derisorio degli
hippy nei confronti della società "normale"; contro la
Weltanschauung del "popolo di Woodstock"; contro il sogno
mai realizzato di una Controcultura planetaria ed egemone -
riprendendo "il peggio" degli anni precedenti: tutto quel
"peggio" che, in una visione sostanzialmente ottimistica del
divenire storico, era stato interpretato come una pura deviazione,
dolorosa ma ininfluente, dal percorso che doveva condurre
all'affermazione dell'Armonia Universale.
Tutto
questo "peggio" era rappresentato - sintetizzando un po'
brutalmente - dall'assassinio compiuto dagli Hell's Angels contro un
ragazzo di colore, ad Altamont (California) nel dicembre del 1969:
durante un concerto gratuito degli Stones. Ed era rappresentato,
soprattutto, dalla strage attuata un anno più tardi da Charles Manson
e dalla sua "Family": che, dopo essere penetrati in una
villa del deserto della California del sud, massacrarono a colpi di
coltello l'attrice Sharon Tate e i suoi amici. Proprio questo delitto
efferato - secondo il sociologo inglese Iain Chambers - sferrò un
colpo mortale alla precaria simbologia e alle aspirazioni libertine
della "società alternativa". Infatti, "il viaggio
attraverso la droga, la musica, la vita comunitaria e altri referenti
esotici che prefiguravano un nuovo tipo di soggettività, si stava
tramutando in una spaventosa parodia, in un incubo apocalittico, in un
viaggio terrificante" ("Ritmi urbani", Costa &
Nolan).
Questo
"viaggio terrificante" trova, sì, alcuni momenti di
resistenza, tanto strenua quanto simbolica: rappresentati dall'inizio
delle trasmissioni di Radio Hanoi (il 4 marzo, con un'apertura
affidata alle note hendrixiane di "Star spangled banner"),
dall'incisione di "Power to the people" da parte di John
Lennon, dallo sforzo umanitario compiuto con i "Concerts for
Bangladesh" (al Madison Square Garden di New York, il 1°
agosto). Ma ormai è avviato, e nulla lo può più fermare. Infatti, i
film più visti in quell'anno di svolta sembrano una radicale antitesi
rispetto a quelli della stagione precedente: recano i titoli di
"Arancia meccanica", "Duel", "Cane di
paglia" e "Shaft". In campo sociale, inizia tristemente
a far parlare di se la nuova sottocultura degli skinheads: che,
riaffermando con violenza una radicata mitologia proletaria favorevole
all'etnocentrismo bianco, inizia a combattere quelli che considera i
suoi atavici "nemici interni": le minoranze etniche
(pakistani in testa), i gay, gli stessi hippy.
In
campo musicale, poi, il disastro, più che prossimo, è ormai
compiuto. Come scrive H. S. Thompson nel suo "The great shark
hunt": "molti esponenti della Controcultura iniziarono a
firmare compromessi, per sopravvivere in termini puramente personali:
contribuendo così a sciogliere quel complesso legame fra il rock
progressivo e un ricco ed eterogeneo momento culturale, e restringendo
il concetto di "progressivo" alla manifestazione di sempre
più limitati orizzonti musicali e formali". Insomma, a dispetto
del disperato tentativo ayleriano, la fine è segnata. E non è certo
un caso che uno dei protagonisti del romanzo di Pynchon, quello stesso
citato in precedenza, di fronte alla devastante brutalità del
"redde rationem" non possa far altro che sospirare:
"Finché è durata, ci siamo divertiti un mondo". D'accordo:
ma - ahinoi - quanto è durata?
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