quella di lunedì 24 settembre. Tre appuntamenti ugualmente interessanti, e perdipiù rivolti alla stessa fascia di pubblico, visto che riguardavano i Roxy Music (al FilaForum), la Mike Westbrook Brass Band (all'Auditorium di corso San Gottardo) e il Tributo a Robert Wyatt (al teatro Dal Verme). Complimenti vivissimi! Oppure potrebbe cominciare ironizzando a piene mani su quel che potrà accadere, andando avanti di questo passo, di qui a pochissimi giorni, quando cominceranno a calare in massa i pezzi da novanta della musica internazionale: David Sylvian il
1.ottobre, Jamiroquai il 12, Laurie Anderson il 21, i Depeche Mode il 24. Ci sarà da divertirsi... Oppure ancora, molto più semplicemente, potrebbe cominciare raccontando di quanto è stato bello, intenso e commovente, il concerto del Dal Verme: nonostante i disguidi e gli accavallamenti di cui
sopra. Ai quali, all'ultimo minuto, se n'è aggiunto pure un altro, forse il più doloroso di tutti: la cancellazione dal nonetto deputato a riproporre la musica di Wyatt del leggendario sassofonista Lol Coxhill, lasciato a casa, nella natia Inghilterra, senza che ci venisse data spiegazione di sorta. Vabbè...
"Soupsongs", zuppa di canzoni, si chiama questo mirabolante canzoniere, già presentato prima dell'estate alla Royal Albert Hall di Londra e documentato da un doppio cidì della Jazzprint. E non c'è dubbio che già dal titolo, così allegramente patafisico, così sagacemente dadaista, si cominci a respirare un'aria prelibatamente wyattiana, lieve e frizzantina al tempo stesso (e pensate che cosa sarebbe successo se anche il grande Coxhil fosse stato della partita: lui che aveva avuto l'ardire di titolare un suo album "Fleas in custard", pulci nella crema...). Quell'aria un po' lirica e un po' disincantata, a tratti drammatica ma spesso intrisa di humour sottile, che i fans di lunga memoria certo ricorderanno di aver ingurgitato a pieni polmoni dentro il "Third" dei Sof Machine (1970), o dentro quel capolavoro assoluto che è "Rock bottom" (1973), oppure ancora nei "dischetti militanti" raccolti dentro "Nothing can stop us" (1981), e infine nell'ultimo album di Wyatt a tutt'oggi disponibile: il recentissimo "Shleep" (1997).
E' proprio pensando a questa mole monumentale di materiali sparsi che l'eccellente regista dell'intera operazione - la trombonista inglese Annie Whitehead, ovviamente coadiuvata dallo stesso Wyatt - ha messo insieme lo scintillante ottetto (già nonetto) ammirato l'altra sera al Dal Verme. Tutti numi tutelari del "progressive" d'oltre Manica, di quel filone particolarissimo (e straordinariamente innovativo) che è passato alla storia come "la Scuola di Canterbury", qui rappresentati da Harry Beckett (tromba e flicorno), Larry Stabbins (già dei Working Week, ai sassofoni), Janette Mason (pianoforte e tastiere), Steve Lamb (basso), Liam Genockey (batteria), Ian Maidman (chitarra e canto). E ovviamente, dulcis in fundo, dalla strepitosa Julie Tippett. Che un tempo lontano, quando faceva coppia con il tastierista Brian Auger, si faceva chiamare Julie Driscoll, e che continua a essere una delle vocalist più interessanti, profonde, introspettive e sublimi dell'intera scena musicale britannica (alla quale non fanno certo difetto le ugole talentuose...).
Per esempio, uno ascolta la sua versione di "Alifib", quel miracolo di sensibilità compositiva contenuto in "Rock bottom", e rimane a bocca aperta e orecchie sbarrate. E' un flusso ginnico, ipnotico e continuo, della medesima inspirazione, il respiro che batte il ritmo insieme alla batteria (leggerissima), mentre le tastiere di Janette si concedono divagazioni celestiali e il basso di Steve Lamb pare quasi un flusso della coscienza universale: poi parte un "crooning" intriso di nonsense, malinconicamente innamorato e teneramente folle, che comincia a tessere una serenata scarna ed essenziale, come certe ballate "scheletriche" di Tim Buckely. Oppure si tuffa in un'interminabile composizione a due (Fred Frith la musica, Robert Wyatt i testi), e gli pare di essere inghiottito da un pandemonio di melodie impossibili, di arabeschi strumentali che sembrano arrivare dalla notte dei tempi (per scomparire poi negli anfratti più misteriosi del cosmo), di deliri vocali che ruotano attorno a se stessi come mantra antichissimi. E' una sorta di colonna sonora del buio e del silenzio del mondo contemporaneo, coerentissima con la concezione filosofica originaria del Gran Maestro di Canterbury, quella a cui dà vita la straordinaria Juli Tippett. Splendidamente coadiuvata da Ian Maidman (che ci concede una versione da brividi di "Sea song", con quel dolcissimo sciabordìo di onde che fa da contrappunto al canto) e da Beckett e Stabbins: che, qua e là, "psicanalizzano" come meglio non si potrebbe alcuni anfratti particolarmente tormentati della poetica wyattiana. Che meraviglia! |