il luganese Franco Ambrosetti (al Blue Note), l’italiano Fabio Morgera (alle Scimmie) e l’americano Jon Hassell (al Dal Verme) - “Suoni e Visioni”, l’abituale rassegna primaverile organizzata dalla Provincia di Milano, ha chiuso in bellezza, lunedì sera, la sua stagione 2003. L’ha chiusa con uno dei tre trombettisti impegnati in quella singolare tenzone a distanza, il più famoso dei tre: ovviamente Jon Hassell (senza nulla togliere al grande valore degli altri due). L’ha chiusa davanti a un pubblico non foltissimo, che riempiva a malapena i due terzi della grande platea del Dal Verme. Un po’ per via dell’eccessiva offerta di musica in una serata, quella del lunedì, tradizionalmente adibita a smaltire lo stress da week-end (e sarà sempre peggio, c’è da scommetterci, da qui a fine luglio). E un po’ perché quest’ultima edizione di “Suoni e Visioni” è stata - oggettivamente - alquanto sottotono rispetto alle precedenti: solo cinque appuntamenti da metà marzo ad oggi, e soltanto uno (quello dell’Orchestra Baobab, che potremo gustare anche al “Festate” di Chiasso) assolutamente esaltante. Jon Hassell a parte, ovviamente.
Di questo sessantaseienne libero improvvisatore nativo di Memphis, Tennessee, si sa già praticamente tutto. Si sa che, dopo la laurea all’Eastman School of Music di Rochester, ha proseguito la sua formazione a Darmstadt, sotto la guida rigorosissima di Karlheinz Stockhausen. Si sa che le prime tracce da lui lasciate su disco risalgono al lontanissimo 1970, quando Terry Riley, uno dei Padri Nobili del minimalismo, lo convoca in studio per la registrazione di quel che da sempre è considerato il suo massimo capolavoro: “In C”. Si sa che un altro contributo fondamentale alla sua formazione artistica arriva dalla militanza dentro il Theatre of Eternal Music del pianista La Monte Young e, soprattutto, dallo studio con il vocalist indiano Pandit Pran Nath, Gran Maestro (Pandit, appunto) di canto “kirana”: che gli insegna a trasferire sulla tromba le linee melodiche del “raga”. E infine si sa che galeotto è l’incontro - quasi un’intersezione di destini - con mister Brian Peter George St. John Le Baptiste de la Salle Eno, o più agevolmente Brian Eno: con il quale, nel 1980, realizza “Fourth World”, autentico, fondamentale, manifesto delle Possible Musics del terzo millennio. Dove Hassell riesce per la prima volta a enucleare un Quarto Mondo capace di accomunare gli impulsi istintivi del Terzo Mondo e le istanze razionali del Primo (tre più uno fa quattro, a buona evidenza). E dove la sua “snake trumpet”, la tromba-serpente sottile e cupa, umida e molle, torbida e malata, suonata quasi alla stregua di una conchiglia di mare, «entra di diritto fra i più audaci virtuosismi dell’intero decennio» (la citazione, d’obbligo, è del grande Piero Scaruffi).
Anche lunedì 26 maggio, a più di vent’anni di distanza da quelle leggendarie sperimentazioni, la “snake trumpet” di Jon Hassell è stata il leit-motiv dell’intera serata. Quando entra in scena, verso le 9 de la tarde, i suoi tre fidi compagni d’avventura sono già al lavoro: tutti e tre nerovestiti al pari del loro leader, come è ovvio che sia. Lo strepitoso Peter Freeman sta percuotendo le corde del suo basso con un ineffabile ritmo cardiaco. Rick Cox passa e ripassa sul ponticello della sua chitarra tutti gli oggetti che ha a disposizione, quasi a imitare il piano preparato di John Cage. Il sapientissimo John Beasley si ingegna a cavare da tastiere e campionatori ogni sorta di sibili e cacofonie, primitivismi e futurismi armoniosamente connessi, ronzii planetari e venti cosmici. Mentre le luci sul palco variano gradualmente da un freddissimo blu a un sensualissimo rosso, per sottolineare anche cromaticamente la raffinatissima mutazione delle atmosfere e dei “mood”. E quando i tre arrivano a un pianissimo, quasi l’anticamera del silenzio più catacombale, c’è da scommettere che il basso riprenderà quanto prima a pulsare la sua sorda vitalità, e la tromba di Hassell a muoversi come un serpente a sonagli fra i cespugli della savana.
E infatti è proprio così. Sapientemente filtrata dal sintetizzatore, a volte raddoppiata da echi e riverberi “intergalattici”, quasi à la Sun Ra, la “snake trumpet” di Pandit Jon dipinge affreschi - a volte eterei, a volte desolati - di un Qaurto Mondo in cui risuonano echi di Asia, Africa e Sudamerica. Evoca civiltà millenarie attraverso una timbrica fatta di vento, di echi, di versi animaleschi, di melma, di sabbie mobili, di canne di bambù, di brume dense e lattiginose. E’ un canto quieto, affascinante e suadente, quello di Jon Hassell: al quale, verso la metà della prima suite (e anche nel bis organizzato sugli stessi “mood”), si aggiunge quello più squillante di Paolo Fresu, gran trombettista di casa nostra (e così fanno quattro, se i conti tornano). E’ un viaggio attraverso i cinque continenti e il cosmo intero, organizzato senza muoversi di un solo millimetro dalla poltroncina di pelle nera che lo ospita. E che gli serve da base di lancio per un volo - dei sensi, della mente, dello spirito - che è ancor oggi quanto di più visionario si possa immaginare. |