non dovrebbe ritornare in auge l'arzillissimo Nicola Arigliano, un
ragazzino al loro confronto, visto che il 6 dicembre prossimo di
anni ne farà soltanto 77? A questa domanda sciaguratamente retorica
una risposta, probante e concreta, è già stata fornita: in quel
curiosissimo locale che si chiama "Salumeria della
musica", che a dispetto del nome che porta in ditta, alquanto
greve e materialone, riesce spesso a proporre spettacoli di gioiosa
e onirica levità. Come quello andato in scena la sera di lunedì 13
novembre, protagonisti Nicola Arigliano, appunto, e un manipolo di
deliziosi jazzmen senza macchia e senza paura: i tre componenti del
suo abituale "combo" (il chitarrista Dario Lapenna, il
contrabbassista Elio Tatti, il batterista Giampaolo Ascolese) e poi
il trombettista Enrico Rava, il sassofonista Gianni Basso, il
chitarrista Franco Cerri, il pianista Renato Sellani, l'armonicista
Bruno De Filippi. Tutti convocati a Milano, in una serata che più
uggiosa e imbronciata non si sarebbe potuto, dal discografico
Stefano Senardi: che dopo aver ricoperto per alcuni anni la carica
di presidente della Polygram Italia, ha ora fondato una piccola
etichetta indipendente - la Nun - che di qui a un paio di mesi
pubblicherà su disco il resoconto fedele di questa indimenticabile
serata. Compresi gli applausi a scena aperta, i cori e gli
"olè" di tripudio del pubblico presente: una folla
sterminata, accaloratissima, composta per una buona metà da fans
d'antan del grande Nicola, e per l'altra metà da teen-agers aperti
al richiamo della curiosità.
Sono
le 9,30 de la tarde, dunque, quando il prode Nicola compare
finalmente sul palco della Salumeria. E' di un umore a dir poco
eccellente, ha gli occhi vispi del ragazzino che ha appena tuffato
le mani nel vaso della marmellata, sfoggia un impeccabile spezzato
di tweed irlandese e il ghigno sgherro di sempre. E, come al solito,
apostrofa tutti con il nome di Pasquale. Pasquale è l'ingegnere del
suono che deve provvedere alla registrazione dell'evento, Pasquale
è il cameriere che gironzola fra i tavoli con le mani ingombre di
bottiglie di rosso, Pasquale è perfino Vittorio Franchini del
"Corriere della sera", il decano di critici jazz di casa.
E per tentare di spiegare il perché di questo vezzo, di questo
autentico "tic" linguistico che nel lessico ariglianesco
si somma e si alterna a quell'altro ("go, man, go",
rivolto al solista di turno), non resta che citare un aneddoto
raccontato dallo stesso Arigliano qualche tempo fa: "Io sono di
Squinzano, provincia di Lecce, e un giorno, anni fa, mi chiama il
sindaco e mi dice: "Lei è il nostro cittadino più famoso, e
siccome si chiama Nicola abbiamo deciso di farla suonare a San
Nicola!". "E che è?", domando io. E lui: "La
chiesa del Santo Patrono della nostra città...". E io:
"Mi hanno chiamato Nicola, ma a me sarebbe tanto piaciuto
Pasquale". E così non sono andato al concerto".
C'è
dunque una vena di formidabile nonsense - e magari anche un pizzico
di lucidissima follia - in questo pimpantissimo vegliardo nato
pugliese e trapiantato a Magliano Sabina, nella campagna fra Terni e
Rieti.Che dimostra diec'anni di meno di quelli che ha sul
groppone, e attribuisce questa virtù alla "dieta" che
segue da sempre - molto aglio condito con grande abbondanza di
cipolla e peperoncino, un grammo ogni dieci chili di peso corporeo -
e, soprattutto, al suo particolarissimo stile di vita: "Sono un
satrapo, padrone assoluto della mia vita, senza donne, senza cani,
senza ricordi; da anni mi alzo alle 4,30 del mattino per fare una
grande camminata, tre o quattro chilometri in questa vallata".
Probabilmente, è proprio questa particolarissima predisposizione,
questa capacità di vivere come se il passato non esistesse e il
futuro fosse un gradevole optional, ciò che impedisce ad Arigliano
di cascare nella trappola del nostalgico, del patetico e del
"dejà vu". Anche se il suo repertorio, pur vastissimo, è
da anni sempre lo stesso. Anche se la sua voce non è certo un
miracolo di timbro e di registro, tanto che a tutti quelli che lo
definivano "il Frank Sinatra italiano" lui era solito
rispondere: "Sbagliato, io sono il più grande cantante che non
canta mai comparso al mondo". E giù una gran risata delle sue,
di quelle che si aprono come una falce di luna nel bel mezzo di
quella faccia da satrapo impenitente.
Il
repertorio, dicevamo. Pur ridotto all'osso - si fa per dire - per
ovvie esigenze di registrazione, si è snocciolato per tre ore
abbondanti e per la bellezza di 35 canzoni. "Evergreen"
americani come "On the sunny side of the street",
"Ol' black magic", "The lady is a tramp",
"Blue moon" e "Sixteen tons", ma, soprattutto,
"sempreverdi" del canzoniere di casa, da sempre patrimonio
privilegiato dell'ugola agra di Nicola. E dunque, svolazzando di
fiore in fiore, "Il pinguino innamorato" e "Venti
chilometri al giorno" (composta nel 1964 da un giovanissimo
Mogol, non ancora fulminato sulla strada di Battisti, e dunque
ancora ben provvisto di un ragguardevole sense of humour),
"Nebbia" e "I sing ammore", "Marilù"
e "Jessica", "Nebbia" e "Buonasera
signorina" (conosciuta dai più per la smagliante
interpretazione, in "brokkolinese verace", di Louis
Prima), "E' quasi l'alba" e l'esilarante "Questione
di tempo". Tutte canzoni meravigliose, ricchissime di una
freschezza e di una modernità sconvolgenti, che tutti i "guest
artists" della serata - con una nota di lode, in particolare,
per il magnifico Enrico Rava - hanno innervato con una sagacia
d'accenti e di colori davvero encomiabile. E ora non resta che
attendere il disco, forse singolo o forse doppio, vista l'abbondanza
di materiale depositato agli atti. Con la speranza che sappia
riproporre almeno in parte lo spirito sfavillante di questa serata
d'altri tempi. |