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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Nicola Arigliano
Il concerto di Milano del 13 novembre 2000
vedi anche la recensione del disco "Nu ritratto"

l'intervista e recensione di "Go man"

Milano. Se i simpatici vegliardi di Cuba hanno assaporato il successo internazionale a ottant'anni suonati, se a giorni farà capolino nei negozi il nuovissimo disco del grande Henry Salvador, che di primavere sul groppone ne ha esattamente 83, perché mai

non dovrebbe ritornare in auge l'arzillissimo Nicola Arigliano, un ragazzino al loro confronto, visto che il 6 dicembre prossimo di anni ne farà soltanto 77? A questa domanda sciaguratamente retorica una risposta, probante e concreta, è già stata fornita: in quel curiosissimo locale che si chiama "Salumeria della musica", che a dispetto del nome che porta in ditta, alquanto greve e materialone, riesce spesso a proporre spettacoli di gioiosa e onirica levità. Come quello andato in scena la sera di lunedì 13 novembre, protagonisti Nicola Arigliano, appunto, e un manipolo di deliziosi jazzmen senza macchia e senza paura: i tre componenti del suo abituale "combo" (il chitarrista Dario Lapenna, il contrabbassista Elio Tatti, il batterista Giampaolo Ascolese) e poi il trombettista Enrico Rava, il sassofonista Gianni Basso, il chitarrista Franco Cerri, il pianista Renato Sellani, l'armonicista Bruno De Filippi. Tutti convocati a Milano, in una serata che più uggiosa e imbronciata non si sarebbe potuto, dal discografico Stefano Senardi: che dopo aver ricoperto per alcuni anni la carica di presidente della Polygram Italia, ha ora fondato una piccola etichetta indipendente - la Nun - che di qui a un paio di mesi pubblicherà su disco il resoconto fedele di questa indimenticabile serata. Compresi gli applausi a scena aperta, i cori e gli "olè" di tripudio del pubblico presente: una folla sterminata, accaloratissima, composta per una buona metà da fans d'antan del grande Nicola, e per l'altra metà da teen-agers aperti al richiamo della curiosità.

Sono le 9,30 de la tarde, dunque, quando il prode Nicola compare finalmente sul palco della Salumeria. E' di un umore a dir poco eccellente, ha gli occhi vispi del ragazzino che ha appena tuffato le mani nel vaso della marmellata, sfoggia un impeccabile spezzato di tweed irlandese e il ghigno sgherro di sempre. E, come al solito, apostrofa tutti con il nome di Pasquale. Pasquale è l'ingegnere del suono che deve provvedere alla registrazione dell'evento, Pasquale è il cameriere che gironzola fra i tavoli con le mani ingombre di bottiglie di rosso, Pasquale è perfino Vittorio Franchini del "Corriere della sera", il decano di critici jazz di casa. E per tentare di spiegare il perché di questo vezzo, di questo autentico "tic" linguistico che nel lessico ariglianesco si somma e si alterna a quell'altro ("go, man, go", rivolto al solista di turno), non resta che citare un aneddoto raccontato dallo stesso Arigliano qualche tempo fa: "Io sono di Squinzano, provincia di Lecce, e un giorno, anni fa, mi chiama il sindaco e mi dice: "Lei è il nostro cittadino più famoso, e siccome si chiama Nicola abbiamo deciso di farla suonare a San Nicola!". "E che è?", domando io. E lui: "La chiesa del Santo Patrono della nostra città...". E io: "Mi hanno chiamato Nicola, ma a me sarebbe tanto piaciuto Pasquale". E così non sono andato al concerto".

C'è dunque una vena di formidabile nonsense - e magari anche un pizzico di lucidissima follia - in questo pimpantissimo vegliardo nato pugliese e trapiantato a Magliano Sabina, nella campagna fra Terni e Rieti.Che dimostra diec'anni di meno di quelli che ha sul groppone, e attribuisce questa virtù alla "dieta" che segue da sempre - molto aglio condito con grande abbondanza di cipolla e peperoncino, un grammo ogni dieci chili di peso corporeo - e, soprattutto, al suo particolarissimo stile di vita: "Sono un satrapo, padrone assoluto della mia vita, senza donne, senza cani, senza ricordi; da anni mi alzo alle 4,30 del mattino per fare una grande camminata, tre o quattro chilometri in questa vallata". Probabilmente, è proprio questa particolarissima predisposizione, questa capacità di vivere come se il passato non esistesse e il futuro fosse un gradevole optional, ciò che impedisce ad Arigliano di cascare nella trappola del nostalgico, del patetico e del "dejà vu". Anche se il suo repertorio, pur vastissimo, è da anni sempre lo stesso. Anche se la sua voce non è certo un miracolo di timbro e di registro, tanto che a tutti quelli che lo definivano "il Frank Sinatra italiano" lui era solito rispondere: "Sbagliato, io sono il più grande cantante che non canta mai comparso al mondo". E giù una gran risata delle sue, di quelle che si aprono come una falce di luna nel bel mezzo di quella faccia da satrapo impenitente.

Il repertorio, dicevamo. Pur ridotto all'osso - si fa per dire - per ovvie esigenze di registrazione, si è snocciolato per tre ore abbondanti e per la bellezza di 35 canzoni. "Evergreen" americani come "On the sunny side of the street", "Ol' black magic", "The lady is a tramp", "Blue moon" e "Sixteen tons", ma, soprattutto, "sempreverdi" del canzoniere di casa, da sempre patrimonio privilegiato dell'ugola agra di Nicola. E dunque, svolazzando di fiore in fiore, "Il pinguino innamorato" e "Venti chilometri al giorno" (composta nel 1964 da un giovanissimo Mogol, non ancora fulminato sulla strada di Battisti, e dunque ancora ben provvisto di un ragguardevole sense of humour), "Nebbia" e "I sing ammore", "Marilù" e "Jessica", "Nebbia" e "Buonasera signorina" (conosciuta dai più per la smagliante interpretazione, in "brokkolinese verace", di Louis Prima), "E' quasi l'alba" e l'esilarante "Questione di tempo". Tutte canzoni meravigliose, ricchissime di una freschezza e di una modernità sconvolgenti, che tutti i "guest artists" della serata - con una nota di lode, in particolare, per il magnifico Enrico Rava - hanno innervato con una sagacia d'accenti e di colori davvero encomiabile. E ora non resta che attendere il disco, forse singolo o forse doppio, vista l'abbondanza di materiale depositato agli atti. Con la speranza che sappia riproporre almeno in parte lo spirito sfavillante di questa serata d'altri tempi.

  Di Roberto Gatti

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