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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Lena Willemark
Ale Möller

 

Due album meravigliosi si aggirano per l’Europa. Due album di "musica non occidentale", o se preferite di folk-jazz; oppure ancora, per dirla con le parole autentiche dei due protagonisti, due album concepiti «nel luogo ideale di incontro fra i musicisti del folk svedese

e quelli provenienti dal mondo dell’improvvisazione». I due dischi in questione si chiamano "Nordan" e "Agram", sono editi dalla Ecm (il primo è del 1994, il secondo di pochi mesi fa) e riportano in copertina un unico soggetto, da sempre molto caro sia alla prestigiosa etichetta discografica di Monaco di Baviera che ai due meravigliosi interpreti dei lavori: questo elemento è l’acqua. L’acqua increspata dei mari del nord, cupa e minacciosa, sormontata da un cielo in tempesta.E tanto basta per dare un’idea, almeno sommaria, di quel che possiamo trovare dentro questi due autentici capolavori di una musica al tempo stesso ancestrale e modernissima, magica ed evocativa, prodigiosamente riportata all’attualità dallo spirito di ricerca di due pionieri che meriterebbero di essere ben più universalmente conosciuti di quanto attualmente siano: la cantante Lena Willemark e il multistrumentista Ale Möller.

Lena è una deliziosa signora svedese di una trentacinquina d’anni, bionda come soltanto le svedesi doc possono essere e provvista di una voce incantevole, a metà strada fra quella grintosa di Mari Boine Persen (che però è norvegese, di origine lappone) e quella sognante di Agnes Buen Garnas. Ale, al contrario, è uno di quegli svedesi atipici che qualche volta capita di incontrare.Non soltanto perché è bruno come una latino verace, e indossa un barbone naïf stile improvvisatore berlinese degli anni Settanta (un po’ alla Peter Brötzmann, per intenderci): ma perché, soprattutto, è oggi un virtuoso riconosciuto - e stimatissimo - di uno strumento che con la Svezia c’entra assai poco, la mandola. I due se ne stanno allegramente seduti al bar di un hotel del centro di Milano, in attesa di partire per un concerto serale a Reggio Emilia, ed è un vero piacere conversare con loro: di quel "Nordan Project" che fa da filo conduttore a entrambe le incisioni, e di tante altre faccenduole annesse e connesse.

lenawillemark2.JPG (7777 byte)  L'intervista

Qual è stato il vostro percorso musicale?

(Ale). «Sono partito dal jazz, ero un discreto trombettista. Poi, per fortuna, ho incontrato un musicista greco, e mi sono avvicinato al folklore di quel paese. E’ stato un passo importante per me, perché mi ha spinto a ricercare dentro la tradizione popolare svedese, ancor oggi vivissima fra i nostri musicisti, anche giovani. Così, da quindic’anni a questa parte, suono soltanto musica tradizionale».

(Lena). «Io, invece, mi sono mossa in una maniera praticamente opposta a quella di Ale. Sono nata e cresciuta in un piccolo viaggio di montagna, con un orecchio ascoltavo la musica folk e con l’altro Radio Luxembourg. Poi, a diciott’anni, mi sono trasferita a Stoccolma: e lì sono stata folgorata dal jazz».

Ma da dove nasce questa voglia di dedicarsi al folk?

(Ale). «Un po’ dal piacere e un po’ dal modo di "sentire" la musica: che è poi l’aspetto fondamentale che deve entrarti dentro, quando suoni. Voglio dire che quando ci applichiamo al folk, noi non lo "sentiamo" affatto come una musica del passato: al contrario, ci pare modernissima. E infatti lo è».

(Lena). «Io credo che si possa amare una musica soltanto se la si rispetta, cioè se si ha un giusto rapporto di deferenza nei confronti di tutta quella gente che l’ha suonata e fatta vivere prima di te. Da qui, da questo afflato, senti crescere dentro di te un qualcosa di nuovo: una sorta di missione, se posso usare questo termine, che ti consente di diventare parte integrante dell’intero processo creativo».

Nei vostri dischi si sente, distintamente, una grande vicinanza con gli elementi della natura: caratteristica che è anche presente in tutti gli altri grandi filoni della musica del Profondo Nord, da quella celtica alla lappone. Da che cosa dipende questa straordinaria attrazione reciproca?

(Ale). «E’ molto semplice. Nei paesi dove la natura esercita ancor oggi un ruolo dominante, l’uomo non può che provare una sanissima forma di amore nei suoi confronti. E da qui a considerare la natura come una formidabile fonte di ispirazione, il passo è davvero breve».

(Lena). «E’ vero, ma forse è il caso di specificare che nella musica del Profondo Nord, come la chiami tu, esistono approcci molto diversi con la natura. Nel "joik" lappone, per esempio, gli uomini, con il loro canto, si rivolgono direttamente alla natura, alle pietre, ai fiumi e alle montagne. Noi, invece, non possediamo questa tradizione. Voglio dire che la nostra musica è più legata alla società, alla vita di relazione fra le genti».

E dunque, su che parametri si basano le "song" che eseguite?

(Ale). «Sulle tradizioni, innanzi tutto: che in genere sono soltanto vocali, e si possono danzare in compagnia. Ma queste tradizioni vogliono che le storie, le leggende, siano raccontate insieme a una melodia. Dunque quella che facciamo è anche un’operazione di recupero: riprendiamo vecchie melodie che sono state tramandate per via orale, e di cui spesso si erano perse le tracce».

(Lena). «In certi casi, poi, abbiamo creato ex novo una linea melodica originale, e addirittura nuovi testi: anche se, come è ovvio, abbiamo sempre cercato di rimanere fedeli al modello originale. Ci tengo a precisarlo perché, dal mio punto di vista, un aspetto basilare del folk è il rispetto per l’identità della musica. Priva di queste caratteristiche, la musica che andremmo a suonare sarebbe soltanto un povero canovaccio.Privo di qualunque anima».

 

  Di Roberto Gatti

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