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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Milano. E due, si potrebbe affermare facendo la conta degli appuntamenti di "Suoni e Visioni" finora andati in scena. La rassegna organizzata dalla Provincia di Milano, dopo aver esordito la settimana precedente con René Aubry,

ha infatti presentato al pubblico - lunedì 26 marzo - un altro rinomatissimo guru della musica d'oggidì: il compositore e performer inglese Michael Nyman, sessant'anni o giù di lì, universalmente famoso per le sue collaborazioni musicali con il regista Peter Greenaway ("The Draughtsman's Contract", "The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover", "Drowning by Numbers", e via di questo passo), con svariati altri cineasti di gran vaglia (Jane Campion, Volker Schlondorff e Neil Jordan, tanto per citarne alcuni), e, ultimamente, per aver dato vita alla colonna sonora di "The Claim", l'ultima fatica di Michael Winterbottom. L'ha presentato in uno scenario prestigiosissimo e troppo a lungo ignorato, il Teatro Strehler di largo Greppi, vale a dire la nuovissima sede del Piccolo Teatro di Milano. L'ha presentato alla testa della sua ormai canonicissima Band di undici elementi, che prevede due violini (Ian Humphries e Ann Morfee), una viola (Kate Musker), un violoncello (Tony Hinnigan), un contrabbasso (Martin Elliott), tre sassofoni (Dave Roach e Simon Haram al contralto e al soprano, Andy Findon al baritono e al piccolo), una tromba (Steve Sidwell), un corno francese (Dave Lee), un trombone (Nigel Barr). Oltre al pianoforte gran coda dello stesso Michael Nyman, ovviamente.

Narra la leggenda che il giovanissimo Nyman degli anni Sessanta, dopo un periodo interamente trascorso a studiare la musica folklorica rumena, si sia guadagnato una robusta reputazione come critico musicale coniando, nel lontanissimo 1968, il termine "minimalismo": immediatamente utilizzato per etichettare l'estetica di compositori a lui anteriori come Philip Glass, Steve Reich e Terry Riley. Narra ancora la leggenda che i suoi primi lavori - per esempio "Bells" del 1971 e "Decay Music" del 1976, inciso per la leggendaria etichetta Obscure di Brian Eno - fossero una vera e propria estremizzazione degli stilemi più risaputi del minimalismo, elevati addirittura all'ennesima potenza. In parole povere, una volta assegnati a ogni strumento una nota e un ritmo, il gioco compositivo innescato da Nyman consisteva nel rallentare a dismisura le strutture ritmiche predefinite, accumulando un numero crescente di volte le unità ritmiche di cui esse erano composte, fino a lasciare soltanto un flusso amorfo di risonanze dalla durata infinita. E in questo senso la sua "decay music" si rifaceva esplicitamente allo "slow motion sound" di Steve Reich, acuendone però il senso di distacco mediante una progressiva scarnificazione dell'armonia. Che diventava quasi un elemento di "rarefazione ermetica".

A confronto del Nyman di vent'anni fa, quello attuale pare quasi apocalittico, segnato da un imperscrutabile fatalismo di fronte alle "miserie" del destino umano. I suoi organici orchestrali si fanno sempre più complessi e sfaccettati, con archi, fiati e voci recitanti a volontà. La sua musica si decompone per ricomporsi poi immediatamente, in senso neo-classico e, a volte, quasi mozartiano. E gli strumenti diventano parte integrante di grandiose progressioni vorticose. Gli archi incalzano in crescendo travolgenti, che ripetono con sostenuta violenza e minime variazioni frasi elementari perfettamente consonanti; i solisti di turno intessono commosse melodie da adagio settecentesco; l'alchimia sonora che ne scaturisce pare quasi uno "switch" derivante dal contrasto fra la tensione veemente delle parti martellanti e ripetitive e la sublime serenità delle parti cantabili. Ed è proprio da questa singolarissima "armonia degli opposti" che il compositore inglese, dopo aver coniato per gli altri l'etichetta del "minimalismo", ha potuto definire se stesso "post-minimalista". E va bene così.

Proprio in questa veste tanto ampia quanto vaga, che aveva un suo perfetto pendant negli "abiti di scena" (camicia bianca sbottonata sul collo, ampi pantaloni neri e flosci, giacca nera curiosamente lunga fin quasi alle ginocchia), il Maestro si è presentato lunedì sera al pubblico foltissimo ed entusiasta del Teatro Strehler: per deliziarlo con uno spettacolo meravigliosamente sfaccettato e multiforme, articolato in due tempi. Il primo edificato su una serie di composizioni antiche e recenti - "A Zed and Two Notes", "Car Crash", "Deft Waltz", "Prawn Watching", "Time Lapse", quattro movimenti della serie "Water Dances" - e, soprattutto, sulla sonorizzazione di "Ballet Mécanique": il celebre cortometraggio cubista realizzato nel 1924, a Parigi, dal pittore Férnand Léger (allora prevedeva il commento musicale d'avanguardia del compositore americano George Antheil). Il secondo tempo, invece, è stato tutto centrato sul progetto multimediale "The Commissar Vanishes" (il commissario svanisce), già presentato qualche mese fa al Barbican di Londra: un video a più mani (il produttore Christopher Kondek, il fotografo e storico David King) sapientemente architettato sulla falsificazione dei documenti fotografici "ufficiali" del periodo della dittatura staliniana (gli avversari politici "miracolosamente" scompaiono, e il Baffone rimane il padrone incontrastato della scena). Proprio da qui, da questo preziosissimo "correre in parallelo" di musica e immagini, tanto caro a Michael Nyman, sono scaturite le note più interessanti dell'intera serata. Tanto avvincenti ed esaltanti da costringere Nyman & soci a concedere un "bis" assolutamente non previsto dal copione.

  Di Roberto Gatti

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