mattina.E' qui per presentare il piccolo tour
(tre date soltanto: il 29 aprile a Cagliari, il 23 maggio a Milano e il 25 a Roma) dedicato a "Drawn from life", il suo ultimissimo album appena pubblicato dalla Opal e realizzato in compagnia dell'"elettronicista" tedesco J. Peter Schwalm. Che infatti lo segue come un'ombra, non si sa se per timidezza o per più che ragionevole deferenza, e va a sistemarsi accanto a lui nel piccolo "loculo" ricavato dentro l'installazione di Kris Ruhs: un'enorme "dark room" abbellita da un'infinità di geroglifici e segni tribali color crema, quasi a voler sottolineare i cromatismi ormai classici della galleria di corso Como 10. L'atmosfera è cordiale, il pubblico folto, Eno sorridente, visibilmente a suo agio in quest'ambientazione così inusuale. Insomma, non compare quasi mai in pubblico, il cinquantaquattrenne "alchimista del suono" di Woodbridge, Inghilterra: ma quando decide di farlo, lo fa al meglio delle sue (enormi) possibilità. Come si intuisce subito, fin dalle prime risposte.
Era da tanto che non veniva in tour con una band...
"Da tanto? Da tantissimo, direi! Se la memoria non mi inganna, l'ultima volta risale al secondo tour con i Roxy Music... Doveva essere il 1973!!!".
E come mai è passato così tanto tempo?
"E' molto semplice. La musica che ho cominciato a fare dopo il periodo Roxy Music - la "discreet", la "ambient", la "possible" - è una musica molto sintetica, quasi "inumana", se mi passate il termine: e dunque non è affatto adatta alle esibizioni "live". Non è proprio il caso di invitare delle persone ad assistere a un concerto di una musica del genere, sarebbe come se un pittore invitasse qualcuno a casa sua a guardarlo mentre dipinge. Un vero e proprio nonsense, non vi pare?".
Ma allora, come mai adesso ha cambiato idea?
"Perché con Peter mi sono trovato perfettamente a mio agio, abbiamo posizioni molto simili in campo musicale. Abbiamo entrambi ascoltato molto jazz e moltissima musica elettronica, amiamo profondamente l'improvvisazione, nel nostro disco abbiamo cercato di infilare un po' di tutto: insomma, abbiamo tentato di trasformarlo in un nuovo "composto chimico" capace di conciliare la musica acustica con qualla elettronica, di risolvere il "gap" fra un modo vecchio e un modo nuovo di comporre. Non so se ci siamo riusciti, ma so che un'esperienza del genere è assolutamente degna di essere condivisa con un po' di gente curiosa e interessata. Per questo siamo qui".
E lei, Herr Schwalm, che cosa ci può dire della sua collaborazione con un "monumento" come Brian
Eno?
"Posso dirvi che il nostro lavoro è iniziato tre anni fa, e che per me è stata un'esperienza mooooolto gradevole e gratificante. C'è sempre molta spontaneità e ancor più improvvisazione in quel che facciamo, è come se non esistesse alcun piano preordinato dietro a tutto quel che accade. Ma sono convinto che un piano c'è, un piano ben celato dentro la mente di
Eno...".
Eno: "Che strano, pensavo che il piano ce l'avessi tu!".
Forse il piano - continuiamo a chiamarlo così, per comodità - è implicito in quelle che lei, mister Eno, ha sempre chiamato "strategie oblique"... A proposito, le usa ancora?
"Sì, di quando in quando. Come forse saprete, le "strategie oblique" non sono altro che scatole con dentro un po' di carte numerate, che io estraggo - una per volta - quando mi trovo in una situazione di impasse compositiva. In genere queste carte mi risolvono brillantemente il problema che mi trovo davanti. Per esempio, l'ultima carta che ho estratto, qualche tempo fa, diceva testualmente così: "Per rispondere correttamente a questa domanda, occorre dare molti soldi a Brian Eno!". Interessante, non vi pare?".
Già.
E che ci dice del rapporto fra intuizione e razionalità, che nei
suoi lavori trova un bilanciamento pressoché perfetto?
"La ringrazio per il complimento, che trovo davvero gratificante. E' vero, mi piace molto mettere in gioco "anche" la razionalità: credo di utilizzarla molto di più di tanti altri miei colleghi. Il fatto è che a me piace moltissimo analizzare il flusso dei processi creativi, e ancor più mi piace lavorare prescindendo completamente dai miei gusti personali, ma lasciandomi sorprendere dal fluire "naturale" delle cose: in questo senso, è ovvio, il cervello gioca un ruolo preponderante. E allora diciamo che le cose si sviluppano più o meno così. L'intuizione è fondamentale all'inizio, per smuovere le cose. Poi, non appena arrivo in un "luogo interessante", interviene l'intelletto: per ordinare, classificare, razionalizzare. A questo punto occorre lasciare nuovo spazio all'intuizione, e permettere alla musica di prendere ogni tipo di direzione possibile sulla base della sensitività. Anche una direzione che all'inizio non avremmo mai potuto immaginare... Anzi, in genere succede proprio questo!".
Questa, in nuce, è la definizione della nuova categoria d'arte che lei ha da poco sistematizzato: l'"arte generativa"...
"E' vero, un'arte che genera se stessa: e proprio di questo parlerò martedì prossimo a Zagabria, in un simposio sulle nuove forme dell'arte contemporanea. Ma è anche un concetto fondamentale per la mia attività di produttore di altri musicisti: il mio unico intervento - o, per meglio dire, il mio intervento determinante - consiste proprio nel cambio di equilibri fra intuito e razionalità. Perché è proprio questa "balance" la chiave di volta da cui dipende tutto il resto".
Un'ultima domanda, mister Eno: quali sono i lavori, suoi individuali e in collaborazione con altri, che ancor oggi ascolta più volentieri?
"Sono tre titoli antichi della collana Obscure: il mio "Discreet Music" e gli album di Gavin Bryars e di Harold Budd. E poi, quasi inutile dirlo, il "Possible Musics" di Jon Hassell. Un lavoro straordinario, che forse non è ancora stato apprezzato per quel che merita".
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