stato norvegese incappò per la prima volta nei torrenziali "sheets of sound" del leggendario sassofonista nero-americano.
Forse quei "lenzuoli di suono" appartenevano a "My favourite things", il suo capolavoro per antonomasia del periodo. O forse debordavano da "Olé", primo futuribile esperimento di commistione fra jazz e flamenco di Spagna. Sta di fatto che fu una folgorazione, un formidabile corto circuito della mente e dei sensi. Tant'è vero che il giorno dopo il giovane Jan, nato a Oslo nel 1947, si precipitò nel negozio sotto casa a comprare un manuale di istruzioni per l'uso del sassofono, con tanto di figurine che illustravano l'esatta digitatura sui tasti dello strumento. Di modo che quando potè permettersi di comprarne uno reale, un Selmer d'annata, del sassofono sapeva già tutto. E di quel che avrebbe fatto da grande, ancora di più. Sarebbe diventato un jazzista, un performer, un improvvisatore senza macchia e senza paura. Sulla scìa del Dio fatto persona - John Coltrane, ovviamente - e di quella che lui da sempre chiama la Santissima Trinità: Albert Ayler, Pharoah Sanders e Archie Shepp.
Quarant'anni esatti sono trascorsi da quel giorno, e Garbarek ha rispettato come meglio non avrebbe potuto la promessa solenne stipulata con se stesso. E' diventato un gigante del sassofono, uno dei "cult musician" più autorevoli, venerati e rispettati di questo scorcio di secolo. Come si evince da "Selected Recordings", la splendida antologia in due volumi appena edita dalla Ecm di Monaco di Baviera, non solo ha suonato con tutti i guru del jazz contemporaneo - da Keith Jarrett a Ralph Towner, da John Abercrombie a Miroslav Vitous - ma ha fatto molto di più. Ha seguito l'indicazione implicita in tanti lavori di Coltrane per avventurarsi "oltre" e soprattutto "altrove". Verso il folklore del medioevo nordico, chiamando a
sé la grande vocalist Agnes Buen Garnås. Verso la tradizione araba, grazie alla collaborazione con il virtuoso di oud Anouar Brahem. Verso il canto "qawwali" del Pakistan, sull'onda di Ustad Fateh Ali Khan. Verso l'antico canto polifonico d'Europa e di Spagna, soprattutto, come dimostra "Officium", il suo capolavoro del 1994, sempre targato Ecm.
Con ammirevole umiltà, Jan Garbarek ci informa che "il merito di questo disco non è tanto mio, quanto del produttore Manfred Eicher, il fondatore di casa Ecm: che un giorno, ascoltando alternativamente l'"Officium Defunctorum" di Christòbal de Morales e un paio di dischi miei, ebbe l'idea di accomunarci in un unico progetto". Nato quasi per caso - meglio, "come una madeleine proustiana", per citare il critico Ivo Franchi - "Officium" fa interagire, con perfetta armonia di intenti e sottili energie, il suono lunare, incantatorio, del sassofonista norvegese, con il canto remoto e liturgico dei quattro virtuosi dello Hilliard Ensemble di Londra: il controtenore David James, i tenori Rogers Covey-Crump e John Potter, il baritono Gordon Jones.E' una "rivoluzione copernicana" nel panorama alquanto stagnante del jazzismo contemporaneo. E' una musica sublime, immacolata, profondamente spirituale: mistero e sacralità che si fanno corpo sonoro ed emozionale. |