i
nervi facilmente
irritabili, i capelli di un marròn alquanto sospetto. Ora è qui
per un motivo sostanzialmente identico - promuovere "Look
into the eyeball", il suo album in uscita l’8 maggio
prossimo per i tipi della Luaka Bop - ma il "mood" che
lo sostiene è completamente diverso da allora: infatti è
allegro, sorridente, parla poco (ma di buon grado), ha i capelli
color sale e pepe (molto più sale che pepe, a dire il vero). E,
soprattutto, sembra infinitamente più giovane di prima. E questa
è l’ennesima conferma del fatto che non è vero che il rock è
solo Musica Giovane per i giovani di tutto il mondo, come
implicitamente sostenevano nei Fabolous Sixties l’incommensurabile
Bob Dylan (ricordate quando diceva, lo sciagurato, che non
bisognava fidarsi di gente che avesse più di trent’anni?) e gli
indimenticabili Pete Townshend e Roger Daltrey (voglio morire
prima di diventare vecchio, cantavano in "My
generation": e meno male che non hanno mantenuto la
promessa...). E’ vero semmai il contrario, e cioè che il rock,
proprio come il vino, migliora, e molto, con il trascorrere degli
anni: come dimostrano ad abundantiam gli stessi Bob Dylan, Pete
Townshend e Roger Daltrey, e poi Lou Reed, Bruce Springsteen, Neil
Young, Johnny Cash e chissà quanti altri ancora. David Byrne
compreso, ovviamente.
Ma
non divaghiamo. Il nostro eroe ormai quasi cinquantenne (li
compirà nel 2003, se la memoria non ci inganna) arriva dunque di
gran carriera, il pomeriggio di mercoledì 11 aprile, nella sala
delle conferenze dell’Hilton di Milano, e ci mette davvero poco
a creare lì dentro l’atmosfera che più gli aggrada. E cioè...
"quella stile seduta psichiatrica", spiega lui affabile:
"con l’unica differenza che io - il paziente - sono da
solo, e invece voi - gli psichiatri - siete tanti,
tantissimi!". E giù una gran risata, candida e innocente
come quella di un fanciullo. Dunque si può cominciare,
sparacchiando nel mucchio qua e là.
Da
un primo ascolto, molto sommario, questo disco sembra molto più
romantico e "morbido" dei precedenti. E’ vero?
"Penso
proprio di sì, anche se devo dire che è "romantico" a
modo mio: vale a dire in una maniera molto "matematica"
e "scientifica". Questo perché sono convinto che il
romanticismo in senso stretto tenda a trasformarsi, a lungo
andare, in una sorta di cliché, che deve poi essere limato e
corretto a dovere. E per far questo io uso il ritmo, i tamburi e
le percussioni: che mi consentono di bilanciare l’eccesso di
malinconia che, a volte, fa capolino nelle melodie e nelle
armonie...".
Sembra
proprio molto "scientifico" questo modo di procedere...
"E
in parte lo è davvero, anche se vorrei ricordare che il primo
motore delle mie composizioni è, ancor oggi, l’intuizione.
Magari passeggio per strada, e all’improvviso mi viene l’idea
- la folgorazione - di una melodia. Allora la incido al volo sul
registratore portatile che ho sempre con me, e poi a casa la
riprendo e la sistemo. Mi piace molto, questo modo di
lavorare!".
Nella
"sistemazione", come la chiami tu, c’è anche l’intrusione
di molti materiali etnici...
"Oh,
sì, non ne potrei più fare a meno... Li butto dentro come piace
a me, creando una specie di mix fra un sacco di cose diverse:
samba, merengue, cha-cha, rumba, rock... Certo, da me non
sentirete mai un tango canonico o una milonga classica: li lascio
fare a chi ne sa infinitamente più di me! Io cerco di arrangiarmi
alla mia maniera, con le cose che so e con gli strumenti che
ho...".
E
in questo disco, fra gli strumenti, ci sono anche molti violini...
"Sì,
è vero. Forse li ho messi perché, inconsciamente, volevo
sottolineare l’aspetto romantico di molte delle mie ultime
composizioni. E in ogni caso l’ispirazione mi è arrivata
direttamente dalla collaborazione che ho avuto di recente con il
Balanescu Quartet. Volevo anche ingaggiarli per questo mio
disco... ma erano troppo cari!".
Qualche
anno fa, a "Rolling Stone", tu hai dichiarato che
"Creuza de mä", di Fabrizio De Andrè, è uno dei dieci
migliori album degli anni Ottanta. Hai trovato qualcosa di
altrettanto buono, nella produzione italiana degli ultimi tempi? E
non ti è mai venuto in mente di fare una "cover" di una
canzone di Fabrizio?
"Alla
prima domanda devo rispondere di no: purtroppo, non ho più
sentito nulla di lontanamente paragonabile a "Creuza de
mä", che infatti continuo a duplicare - illegalmente! - per
un sacco di amici americani. Quanto alla possibilità di una
"cover"... perché no? L’idea mi attira parecchio, e
probabilmente l’avrei già realizzata se non fossi stato
trattenuto dall’enorme difficoltà di tradurre dal genovese all’inglese!
Vedremo in futuro...".
Ma,
per il momento, il futuro è qui, in uno dei locali più trendy
dell’underground milanese: il Tunnel di via Sammartini, a due
passi dalla stazione Centrale. Dove la sera di mercoledì il
grande David Byrne si esibisce in un piccolo concerto per un
ristrettissimo manipolo di ospiti, alla testa del suo trio
abituale (Paul Frazier al basso, Mauro Refosco alle percussioni e
David Hilliard alla batteria) rafforzato da un sestetto d’archi
tutto italiano, selezionato per l’occasione da Morgan, il leader
dei Bluvertigo. E’ un’ora di musica fantastica, scoppiettante,
ai limiti del calor bianco. Dove convivono con splendida armonia
composizioni del passato recente e remoto ("Nothing but
flowers", composta in coppia con
Caetano
Veloso, "And she was", "Once in a
lifetime", mirabolante reperto dei primi Talking Heads,
"Sax and violins", composta per Wim Wenders) e melodie
dell’ultima ora: "Revolution", "UB Jesus",
"Like humans do", "The accident", "The
great intoxication". E’ una straordinaria sarabanda di
colori, di suoni, di profumi e di richiami alle memorie ancestrali
di ogni angolo del mondo, quella che ascoltiamo con le orecchie
ben dritte. Dove il nostro (quasi) cinquantenne dimostra una
maestrìa vocale e interpretativa a dir poco sublime, e una carica
energetica da lasciare a bocca aperta. Buon segno, visto che a
luglio David Byrne ritornerà in Italia: per un tour pieno di
appuntamenti e di magica alchimia sonora. |