scomparso a New York giusto trent’anni fa, in circostanze tragiche e mai chiarite.
Oggi, trasformato in un "dazebao" a tutta parete, questo
stesso aforisma fa bella mostra di sè nell’atelier musicale di
Christoph Haas, quarantasettenne percussionista di Stoccarda. Che dopo
aver militato come batterista in numerosi gruppi tedeschi di jazz e
rock - e perfino punk, nelle stagioni più fulgide di quel movimento -
da ormai vent’anni insegue le radici del ritmo su qualunque
strumento possibile - tamburi e congas, maracas e berimbao, bodhràn e
bendir - e in qualsiasi anfratto del globo queste si annidino: in
Africa e in Brasile, in India, Giappone e Italia del sud. Per
riproporle, poi, in concerti e seminari aperti a centinaia di persone:
principianti, soprattutto, ma anche impeccabili professionisti, come
si è visto nell’ultimo che ha tenuto a Milano, il 2 e 3 dicembre
scorsi. Con bella immaginazione, Christoph Haas ama definire questi
workshop "The ocean of rhythm", l’oceano del ritmo. Quasi
a voler sottolineare che la pulsione ritmica non è un’invenzione
artificiosa dell’"homo percussor", ma piuttosto un’onda
delicata e travolgente al tempo stesso: che viene da lontano e va
ancor più lontano, dentro e fuori di noi.
L'Intervista
E’
così, signor Haas?
"E’
proprio così. Il termine ritmo deriva infatti dal greco
"rheo", che significa "ciò che fluisce". E’
dunque un "fluido", una "vibrazione", che agisce
in tutte le strutture che noi conosciamo, da quelle microscopiche, per
esempio le cellule, a quelle macroscopiche, i pianeti e le galassie.
Tant’è vero che quella che Pitagora chiamava "la musica delle
sfere" altro non è che una mera questione di proporzioni
ritmiche. Possiamo dunque dire che ritmo e suono sono soltanto
frequenze diverse della stessa energia vibratoria, e proprio per
questo il ritmo è una chiave essenziale per ritrovare il centro di
noi stessi".
"Centro",
termine un po’ vago e misterioso. Lo può specificare meglio?
"Naturalmente.
A seconda delle credenze e delle tradizioni, il "centro"
può essere individuato all’interno di noi stessi: infatti alcuni lo
identificano con il plesso solare, altri con l’osso sacro, altri
ancora con il cuore. Oppure all’esterno, in qualcosa che poi noi
cerchiamo di rendere oggettivo attraverso raffigurazioni di divinità
create a nostra immagine e somiglianza. Nel mio caso, il
"centro" è quella sorta di energia primordiale che
struttura le cose, e che ci consente di vibrare in perfetta sintonia
con la natura circostante. E gli strumenti a percussione sono il
tramite ideale per raggiungere questo obiettivo".
Sta
parlando del tamburo, per caso?
"Certo.
Fin dai tempi più remoti il tamburo è il "veicolo" più
adatto per raggiungere gli stati alterati di coscienza necessari alle
pratiche di guarigione. In termini scientifici, questo modo di
percuotere il tamburo si chiama "theta drumming", perché ha
una connessione diretta con le onde "theta" del cervello:
quelle che si producono in un campo intermedio fra il sonno e la
veglia, caratterizzate da una frequenza fra i 4 e gli 8 hertz. Bene.
Alcune recentissime ricerche - per esempio quelle di Mo Moxfield della
Mind Center Corporation di Palo Alto, California - hanno dimostrato
che percuotendo il tamburo in maniera monotona e ossessiva, a un ritmo
di circa 270 battute al minuto, dopo pochissimo tempo il cervello
viene stimolato a una sovraproduzione di onde theta. E questo induce
nel paziente uno stato immediato di benessere e rilassamento".
In
altre parole, si utilizza un’antica tecnica sciamanica per
sconfiggere lo stress e le nevrosi della società contemporanea...
"Già.
Per paradossale che possa sembrare, la "ricetta" è proprio
questa: ritornare alla semplicità della natura, all’essenzialità
delle cose, proprio come ho fatto io, una ventina d’anni fa, al
termine delle mie esperienze jazz-rock. Riprendere contatto con il mio
corpo, con i suoni prodotti con i piedi, le mani e la voce,
tralasciando completamente le sonorità elettriche e sintetiche che
ora sono tanto di moda, è stato, per me, un esercizio di guarigione
di fondamentale importanza".
Proviamo
a farlo insieme?
"Come
no. Già il fatto di passeggiare in mezzo alla natura, magari lungo un
sentiero che costeggia un fiume, è, di per sè, una piccola
esperienza ritmica. I passi scandiscono una pulsazione binaria che è
alla base di tanti ritmi moderni, per esempio il samba, e che può
essere opportunamente sottolineata con l’uso della voce.
Accompagnando regolarmente i singoli passi con le sillabe sanscrite
"ta" e "ki"".
E’
così indispensabile, il sanscrito?
"Indispensabile
no, utilissimo sì. Infatti, è assolutamente ovvio che per marcare il
tempo potremmo utilizzare un qualunque nonsense: per esempio, nel caso
di un ritmo quaternario, le quattro sillabe della parola
"marmellata". Ma le "sillabe seminali" che
utilizzo abitualmente - "ta-ki" per i due tempi,
"ta-ki-te" per i tre, "ta-ka-di-mi" per i quattro,
e così via - possiedono alcuni vantaggi indiscutibili. Innanzi tutto,
hanno un "plusvalore armonico" capace di stimolare la nostra
sensibilità fino ai livelli più profondi e sottili del nostro corpo.
Poi, non avendo apparentemente alcun significato, distolgono la mente
dal suo ronzìo ininterrotto. Dulcis in fundo, sono fonemi strutturati
utilizzati dall’umanità fin dalla notte dei tempi: quindi,
contengono in sè tutto il potere di riequilibrio energetico tipico
dei "mantra"".
Elementare,
Herr Haas. E funziona?
"Altro
che se funziona. Lei non ha neppure idea di quante persone afflitte da
stress e nevrosi preferiscano ormai utilizzare la terapia del suono in
luogo della solita psicanalisi...".