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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Christoph Haas
MUSICA POVERA
"Inside the hollow cliff"

"Music is the healing force of the universe", la musica è la forza guaritrice dell’universo. Questo era l’aforisma prediletto di Albert Ayler, il grande sassofonista nero-americano  

scomparso a New York giusto trent’anni fa, in circostanze tragiche e mai chiarite. Oggi, trasformato in un "dazebao" a tutta parete, questo stesso aforisma fa bella mostra di sè nell’atelier musicale di Christoph Haas, quarantasettenne percussionista di Stoccarda. Che dopo aver militato come batterista in numerosi gruppi tedeschi di jazz e rock - e perfino punk, nelle stagioni più fulgide di quel movimento - da ormai vent’anni insegue le radici del ritmo su qualunque strumento possibile - tamburi e congas, maracas e berimbao, bodhràn e bendir - e in qualsiasi anfratto del globo queste si annidino: in Africa e in Brasile, in India, Giappone e Italia del sud. Per riproporle, poi, in concerti e seminari aperti a centinaia di persone: principianti, soprattutto, ma anche impeccabili professionisti, come si è visto nell’ultimo che ha tenuto a Milano, il 2 e 3 dicembre scorsi. Con bella immaginazione, Christoph Haas ama definire questi workshop "The ocean of rhythm", l’oceano del ritmo. Quasi a voler sottolineare che la pulsione ritmica non è un’invenzione artificiosa dell’"homo percussor", ma piuttosto un’onda delicata e travolgente al tempo stesso: che viene da lontano e va ancor più lontano, dentro e fuori di noi.

 

 

L'Intervista

 

E’ così, signor Haas?

"E’ proprio così. Il termine ritmo deriva infatti dal greco "rheo", che significa "ciò che fluisce". E’ dunque un "fluido", una "vibrazione", che agisce in tutte le strutture che noi conosciamo, da quelle microscopiche, per esempio le cellule, a quelle macroscopiche, i pianeti e le galassie. Tant’è vero che quella che Pitagora chiamava "la musica delle sfere" altro non è che una mera questione di proporzioni ritmiche. Possiamo dunque dire che ritmo e suono sono soltanto frequenze diverse della stessa energia vibratoria, e proprio per questo il ritmo è una chiave essenziale per ritrovare il centro di noi stessi".

 

"Centro", termine un po’ vago e misterioso. Lo può specificare meglio?

"Naturalmente. A seconda delle credenze e delle tradizioni, il "centro" può essere individuato all’interno di noi stessi: infatti alcuni lo identificano con il plesso solare, altri con l’osso sacro, altri ancora con il cuore. Oppure all’esterno, in qualcosa che poi noi cerchiamo di rendere oggettivo attraverso raffigurazioni di divinità create a nostra immagine e somiglianza. Nel mio caso, il "centro" è quella sorta di energia primordiale che struttura le cose, e che ci consente di vibrare in perfetta sintonia con la natura circostante. E gli strumenti a percussione sono il tramite ideale per raggiungere questo obiettivo".

 

Sta parlando del tamburo, per caso?

"Certo. Fin dai tempi più remoti il tamburo è il "veicolo" più adatto per raggiungere gli stati alterati di coscienza necessari alle pratiche di guarigione. In termini scientifici, questo modo di percuotere il tamburo si chiama "theta drumming", perché ha una connessione diretta con le onde "theta" del cervello: quelle che si producono in un campo intermedio fra il sonno e la veglia, caratterizzate da una frequenza fra i 4 e gli 8 hertz. Bene. Alcune recentissime ricerche - per esempio quelle di Mo Moxfield della Mind Center Corporation di Palo Alto, California - hanno dimostrato che percuotendo il tamburo in maniera monotona e ossessiva, a un ritmo di circa 270 battute al minuto, dopo pochissimo tempo il cervello viene stimolato a una sovraproduzione di onde theta. E questo induce nel paziente uno stato immediato di benessere e rilassamento".

 

In altre parole, si utilizza un’antica tecnica sciamanica per sconfiggere lo stress e le nevrosi della società contemporanea...

"Già. Per paradossale che possa sembrare, la "ricetta" è proprio questa: ritornare alla semplicità della natura, all’essenzialità delle cose, proprio come ho fatto io, una ventina d’anni fa, al termine delle mie esperienze jazz-rock. Riprendere contatto con il mio corpo, con i suoni prodotti con i piedi, le mani e la voce, tralasciando completamente le sonorità elettriche e sintetiche che ora sono tanto di moda, è stato, per me, un esercizio di guarigione di fondamentale importanza".

 

Proviamo a farlo insieme?

"Come no. Già il fatto di passeggiare in mezzo alla natura, magari lungo un sentiero che costeggia un fiume, è, di per sè, una piccola esperienza ritmica. I passi scandiscono una pulsazione binaria che è alla base di tanti ritmi moderni, per esempio il samba, e che può essere opportunamente sottolineata con l’uso della voce. Accompagnando regolarmente i singoli passi con le sillabe sanscrite "ta" e "ki"".

 

E’ così indispensabile, il sanscrito?

"Indispensabile no, utilissimo sì. Infatti, è assolutamente ovvio che per marcare il tempo potremmo utilizzare un qualunque nonsense: per esempio, nel caso di un ritmo quaternario, le quattro sillabe della parola "marmellata". Ma le "sillabe seminali" che utilizzo abitualmente - "ta-ki" per i due tempi, "ta-ki-te" per i tre, "ta-ka-di-mi" per i quattro, e così via - possiedono alcuni vantaggi indiscutibili. Innanzi tutto, hanno un "plusvalore armonico" capace di stimolare la nostra sensibilità fino ai livelli più profondi e sottili del nostro corpo. Poi, non avendo apparentemente alcun significato, distolgono la mente dal suo ronzìo ininterrotto. Dulcis in fundo, sono fonemi strutturati utilizzati dall’umanità fin dalla notte dei tempi: quindi, contengono in sè tutto il potere di riequilibrio energetico tipico dei "mantra"".

 

Elementare, Herr Haas. E funziona?

"Altro che se funziona. Lei non ha neppure idea di quante persone afflitte da stress e nevrosi preferiscano ormai utilizzare la terapia del suono in luogo della solita psicanalisi...".

  Di Roberto Gatti

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