Smeraldo di Milano. E ora un’altra buona, anzi ottima, notizia per tutti
gli appassionati di rock progressivo. A dispetto della temperatura da alto forno trovata venerdì sera nello Smeraldo or ora citato, i redivivi King Crimson godono tuttora di uno stato di salute a dir poco eccellente. Non per nulla il tour che hanno messo in piedi si chiama “The Power to Believe”, il potere di crederci. E se anche tre di loro (non il quarto, pardon, il primus inter pares: l’ineffabile Padre Fondatore e capo-cordata Robert Fripp, abbigliato con una camicia blu notte “chinese style” abbottonata fino all’ultimo bottone possibile) lasciano sui legni del palco alcune decine di litri di sudore, e qualche chilo abbondante di preziosissimi sali minerali, la musica fluisce splendidamente torrenziale e spaventosamente assertiva, come se non fossero passati quasi trentacinque anni dalle prime note emesse in quel di Londra (e qui, detto fra parentesi, davvero non si comprende come mai gli Stones, ogni volta che riappaiono, debbano sempre avere l’onore delle prime pagine, e questi straordinari virtuosi del romanticismo in chiave rock invece no: ma lasciamo perdere...).
E dunque, il concerto nell’alto forno inizia alle 9 in punto, in una maniera che definire bizzarra è dire ancora poco. Sul palco invaso da una quantità inverosimile di amplificatori, computer, sequencer, tastiere elettroniche, chitarre e tamburi, fa la sua apparizione alquanto circospetta mister Fripp in persona. Non dà neppure un’occhiata al pubblico che gremisce la sala, ma si dirige lentamente verso la sua postazione a provare un po’ di distorsioni, riverberi ed effetti Larsen. Sembra un umile accordatore di strumenti, quel tipo così serio, occhialuto e grassoccio, e infatti ben pochi in platea lo riconoscono. E anche a quei pochi che, presi da vivissima emozione, cominciano a sillabare in coro “Fripp! Fripp! Fripp!”, chiudendo il cerchio con l’urrah! di rito, il Padre Fondatore non rivolge non diciamo un sorriso, ma neppure uno sguardo di sottecchi. Fa anzi dire dal suo tour manager che non sono permesse nè registrazioni (logico) nè fotografie del concerto: con grande sdegno dei tanti reporter accorsi fin lì per documentare l’ennesima resurrezione di una delle band più carismatiche di tutti gli anni Settanta. E non si scusa neppure (figuriamoci!) per questa decisione così balzana, in un mondo dove l’apparenza è tutto, o quasi. Sembra anzi più che deliziato da simile coup de théâtre. Un po’ come il Miles Davis dei primi anni Sessanta, quello che girava sprezzantemente le spalle al pubblico nel momento dell’applauso a scena aperta. Oppure, se preferite, come l’Enrico Cuccia di Mediobanca: quello che manovrava tutti i fili dell’economia italiana senza mai apparire in pubblico.
E infatti anche Fripp - che pure di questa band è il leader indiscusso, oltre che l’unico superstite della formazione originaria: quella con Greg Lake e Pete Sinfield - una volta terminata la fase degli esperimenti e delle distorsioni, va a sedersi nel cantuccio più buio e appartato del palco: lo si intravede a malapena, immerso in quella camicia blu notte, nel cono tenuissimo di uno spot violetto. Al centro dell’attenzione, in perfetta evidenza, fa invece sistemare gli altri tre eroi del nuovo Re Cremisi: il chitarrista e cantante (e co-leader della band) Adrian Belew, con i radi capelli ormai bianchi che sventolano nella calura, lo strepitoso bassista Trey Gunn (che sostituisce Tony Levin) e il gran maestro di tamburi Pat Mastellotto, in quella che era un tempo la postazione di Bill Bruford. E ci si accorge subito che i sostituti sono del tutto degni dei grandi assenti - assenti forse per caso, o più probabilmente per espressa volontà. Trey Gunn è un mostro di precisione, di maestria armonica e di inventiva rumoristica: è perfettamente calato nella parola d’ordine - “Discipline” - che da sempre Robert Fripp chiede ai suoi partner, ma è capace di coniugarla con un’apertura mentale e una fantasia senza limiti. Pat Mastellotto è un metronomo assoluto, e, al tempo stesso, un torrente in piena di fragori, clangori, ritmi spezzati, scintillìo di cimbali, crepitìo di rullanti, rimbombi di casse. Il suo batterismo è una sommatoria infinita di cuori impazziti, ciascuno impegnato a seguire il proprio ritmo, fino al limite fisiologico dei 180 bpm; ciascuno capace di integrarsi perfettamente con gli altri.
Ma è quasi inutile sottolineare che l’intero bandolo della matassa si regge sul gioco dialettico delle chitarre di Belew e Fripp, che si fronteggiano come due ballerini di tango nelle canzoni di Paolo Conte. Si guardano, si ammiccano, si sorridono, si abbracciano e si divincolano, si eccitano a vicenda. Assecondate, di quando in quando, dalla vocalità a volte roca e a volte delirante dello stesso Belew: un “cantante” perfettamente a suo agio dentro questa sequenza ininterrotta di opposti che si integrano fra loro come i simboli dello Yin e dello Yang. E così, mentre la temperatura dell’alto forno si arroventa ogni minuto di più, si snocciolano uno dopo l’altro alcuni “must” dei King Crimson di ieri e di oggi: “Larks’ Tongues in Aspic” (la prima e la quarta), “Three of a Perfect Pair”, “The Power to Believe”, “Power Circle”, “Prozac”, “Dinosaur”, “Elephant”. Fino al trionfo finale di “Red”, con tutto il pubblico in piedi a urlare e battere le mani, come impazzito. E con mister Fripp che se ne va senza neanche salutare, lasciando ai suoi tre compari l’onore e la gioia dell’apoteosi. Che tipo! |