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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Intervista a Battiato

Sono sette anni che Franco Battiato ha spostato la sua dimora stabile da Milano a Giarre, un paesino alle falde dell'Etna, a un'ora (scarsa) di macchina da Catania, 700 metri d'altezza e poche centinaia di abitanti. E sono sette anni che il musicista siciliano, fra un disco di canzoni e un lavoro di più ampio respiro classicheggiante, fra una tournèe e una qualche (rarissima) apparizione televisiva, dedica tutto il poco tempo che gli rimane alla sistemazione della sua casa: un autentico paradiso terrestre che occupa per intero il cucuzzolo di una collinetta, davanti Taormina e l'immenso mare di Sicilia, alle spalle la sagoma imponente, e anche un pochino conturbante, del grande vulcano.
Questo "work in progress" - come lo definisce lui, ridendo della sua incapacità di trovare un termine italiano in grado di rendere efficacemente l'idea del suo lavoro - lo distende e lo rilassa in maniera totale.

"E' bellissimo", dice, "poter trasformare piano piano una vecchia stalla in una cappella, o ricavare un teatrino di prova da uno scantinato adibito a deposito di botti, o ricavare sul fronte della casa una veranda dove sistemare il mio studio di pittura. Tutto questo mi dà l'idea di un impegno metodico, continuo, sempre uguale eppur sempre diverso". Proprio come i ritmi che, da sette anni esatti, con ogni tempo e in ogni stagione, cadenzano le sue giornate: la sveglia alle 5 del mattino, poi la contemplazione del paesaggio (quasi a voler riempire il cuore e i polmoni di tutta quanta l'aria di Sicilia), poi l'ascolto, per una mezz'oretta buona, di musica classica. Seguono lo yoga e la meditazione; poi, alle 7 e 30 precise, la colazione, quindi il lavoro fino all'una. Dopo pranzo, immancabile, il riposino pomeridiano, e poi ancora il lavoro dalle 3 alle 8 di sera. E solo a questo punto Battiato si concede una cena frugale, il rito del Telegiornale, la visione di un film in cassetta.

Signor Battiato, quanto è cambiata la sua vita dal giorno in cui ha deciso di trasferirsi qui?

"Quanto non so, come pure non so se questa scelta sia da considerarsi irreversibile. Quello che invece so per certo è che ho abbandonato Milano non per idiosincrasia della metropoli: ma perché, a un certo punto della mia vita, ho sentito impellente la necessità del silenzio, la voglia di avere spazi più ampi a mia totale disposizione. Non ho difficoltà ad ammettere che Milano ogni tanto mi manca: i suoi teatri, i suoi cinema, qualche concerto, l'appuntamento pomeridiano al bar per un cappuccino. Ma qui non ho distrazioni di sorta, una passeggiata nel mio giardino per respirare il profumo dei gelsomini mi tonifica completamente, la vista del mare mi dà sensazioni di quiete difficili da descrivere con le parole. Sono felice, insomma".

Da quando è qui, lei ha deciso di affiancare all'attività di musicista anche quella di pittore: pittore di icone, soprattutto. Come è nata questa passione?

"Più che una passione, direi che quella della pittura è stata una necessità. La necessità di porre rimedio a un difetto troppo grande: la mia totale incapacità di fare qualsiasi cosa con le matite e i pennelli, il mio blocco di fronte alla trasformazione di una cosa vista in una cosa trasposta su tela. Quella della pittura è stata una sorta di sfida con me stesso. E ora - che i miei dipinti piacciano oppure no - credo di poter affermare di averla vinta, questa sfida. Ora so che cos'è la prospettiva, ora ho capito che la pittura e la musica occupano dimensioni totalmente diverse, anche se complementari, nella mia mente e nel mio cuore".

Altra singolare coincidenza: sono molti anni che lei pratica il sufismo, ma solo da quando è qui ha deciso di rendere pubblica ed evidente la sua fede religiosa. Come mai?

"E' molto semplice. Pur senza voler convincere nessuno - l'indottrinamento non fa certo parte del mio bagaglio filosofico e culturale - trovo che non sia male lanciare segnali evidenti di un certo genere di testimonianza. E' un modo di dire a chi ti segue e a chi ti apprezza: 'Stai all'erta, qualcosa in te può cambiare'. Così come è cambiato in me".

Mi tolga una curiosità, e mi perdoni la banalità della domanda: che cosa l'ha spinta a "scegliere" il sufismo in luogo - che so - del buddismo o della teosofia?

"Direi che l'ho abbracciato per una questione di vicinanza, per quella sorta di illuminazione che ti pervade quando ti accorgi di aver trovato proprio quello che andavi cercando. In altre parole, io sono legato al sufismo perché ho scoperto che il mio mondo interiore è assolutamente uguale a quello dei mistici sufi, in particolare per quel che riguarda la concezione della sofferenza".

La sofferenza?

"Sì, proprio la sofferenza. Da non intendersi nell'accezione 'normale' del termine, come quel 'qualcosa' che in genere pervade i rapporti di coppia e provoca le liti e le rotture coniugali: ma, semmai, nel suo senso più universale e trascendente, vicino a quello stato che generalmente viene classificato come 'angoscia'. Bene, questo sgomento, quando sopravviene, implica una totale inabilità nei confronti delle faccende della vita, impedisce ogni comprensione di quel che sta succedendo. E, quando viene portato alle conseguenze estreme, assomiglia a una tempesta cosmica che si abbatte su un individuo inerme: totalmente incapace di sopportare anche una briciola minuscola del suo furore. Proprio questo tipo di sofferenza, che più volte ho sperimentato sulla mia pelle, è stato il tramite che mi ha avvicinato al sufismo".

E' a questo tipo di sofferenza che si è ispirato per scrivere "Il Re del Mondo", la canzone che prende a prestito il titolo di un famoso saggio di René Guénon?

"Direi di no: perché 'Il Re del Mondo', pur descrivendo una situazione assolutamente opprimente, è, tutto sommato, una canzone abbastanza serena. Direi anzi che l'unico riferimento a una sofferenza come quella che ho tentato di descrivere in precedenza si trova in una canzone del mio ultimo album, "Lode all'Inviolato". Nel passo dove canto: 'Ne abbiamo attraversate di tempeste, e quante prove antiche e dure...'".

Sempre da questo punto di vista, una canzone prettamente politica come "Povera patria" sembra quasi anomala, nella sua produzione...

"Infatti è proprio così. A pensarci adesso, avrei preferito non farla: perché la 'politica' non è proprio il mio mestiere. Ma ci sono stato costretto per l'indignazione che provavo - e che tuttora provo - di fronte alla volgarità dei politici. Una volgarità che mi fa realmente orrore, e che si manifesta nella totale insensibilità per le esigenze degli altri".

Che cosa la spinge, dunque, a scrivere musica? Musica così diversa, fra l'altro?

"E' molto difficile rispondere a questa domanda. Perché si tratta di una sorta di 'necessità arcaica': di un qualcosa che preesiste a me, e che utilizza qualsiasi tipo di linguaggio, dal canto gregoriano fino al techno-pop, per comunicare a chi ascolta i miei sentimenti. Però, aldilà delle differenze formali, ciò che trovo invariabilmente presente in tutti i miei lavori, da quelli 'avanguardistici' degli anni Settanta fino alla mia recentissima 'Messa arcaica', è una ricerca costante della bellezza, dell'armonia, della fluidità delle soluzioni che si muovono all'interno di ogni linguaggio prescelto. Perché sono assolutamente sicuro che per comunicare certi sentimenti, certe emozioni, certe opzioni del cuore, è necessario seguire strade ben definite".

Strade come quelle della "Messa arcaica", per esempio?

"Sì. E quest'esperienza, fra l'altro, è stata per me estremamente significativa anche per altri motivi. Perché, per esempio, mi ha insegnato quanto sia strano questo nostro mondo musicale: dove capita di essere al centro di un tifo da mega-concerto rock anche quando si suona in una chiesa, anche quando si esegue un'opera che si muove lungo un tenuissimo filo orizzontale. Tutto questo è molto gratificante, intendiamoci: ma è certo che non mi sarei mai aspettato di vedere il Duomo di Orvieto trasformarsi in una sorta di Palasport, al termine dell'esecuzione...".

Si aspetta di scatenare un "tifo" del genere anche con la nuova opera che sta componendo, il "Federico II di Svevia"?

"E' un po' troppo presto per dirlo, anche perché questa è un'opera 'sui generis': il libretto di Manlio Sgalambro, uno dei massimi filosofi italiani, prevede infatti molte parti recitate, e soltanto alcuni monologhi commentati da orchestra e coro. Il debutto è previsto il 20 settembre prossimo, nella Cattedrale di Palermo, con l'Orchestra Sinfonica Siciliana diretta da Gabriele Ferro. Diamoci un appuntamento lì, per vedere l'effetto che fa".

  Di Roberto Gatti

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