sbandieratissime propensioni ginniche!), a un paio di chilometri di distanza in linea d'aria, nello splendido teatro Strehler di largo Greppi, si celebrava l'elegia del silenzio. Oppure anche, se preferite, il primato del sussurro, l'apoteosi del soffio rivitalizzante, l'esaltazione della carezza sonora bisbigliata in punta di lingua. Il tutto grazie a quel Genio della canzone che è João Gilberto: ovvero il Padre Nobile della
bossa-nova, lo chansonnier capace di materializzarsi a sorpresa (di rado, oh, quanto di rado...) come un miraggio tropicale, il Benedetti Michelangeli della chitarra - anzi, del
"violão" - abile com'è a ottenere, soltanto con la sua presenza e il suo ineguagliabile carisma, il più catacombale dei silenzi mentre si esibisce. Di modo che il suo soffio vitale - già straordinariamente tenue ai tempi del suo esordio, verso la fine dei Cinquanta, e oggi ancor più trattenuto e rarefatto - è una sorta di "nota dell'anima", distinguibile soltanto aguzzando per bene incudine, martello e organo del Corti. E proprio questo, ovviamente, lo rende così fascinoso e inimitabile: come facilmente si evince dall'ascolto del suo ultimissimo album,
"Voz e violão".
Ma c'è dell'altro, ovviamente. C'è, attualissimo ancor oggi, il pensiero espresso da Antonio Carlos
Jobim, il compositore più grande che la bossa-nova abbia mai avuto, alcuni anni dopo aver ascoltato João la prima volta, nel 1958: "C'erano moltissimi ragazzi profondamente coinvolti nel tentativo di "depurare" la musica brasiliana dai suoi eccessi
percussionistici, ma João Gilberto apparve subito come una luce, come una stella rilucente nel firmamento del nostro paese. Egli divenne subito un termine di paragone assoluto, perché era l'unico capace di condurre la sua chitarra lungo una via e il suo canto lungo un'altra via totalmente difforme, e questo apparente paradosso creava una "terza dimensione" straordinariamente originale e profonda. Sì, non c'è alcun dubbio: il ragazzo che ha portato la bossa-nova in giro per il mondo è stato proprio João Gilberto".
Ritornavano in mente queste parole profetiche del grande Jobim la sera di giovedì 2 novembre, ascoltando quel lievissimo sussurro che proveniva dal palco dello
Strehler, appena illuminato da un paio di "occhi di bue" tenuti volutamente al minimo, quasi a voler assecondare l'impalpabilità della materia sonora. E allora lo sguardo correva verso quell'omino quasi settantenne (la data di nascita iscritta all'anagrafe è 10 giugno 1931, località
Juazeiro, stato di Bahia), ripiegato e spesso quasi afflosciato sul suo inseparabile
"violão", vezzeggiato e accarezzato come un'amante fedelissima e generosa. E l'orecchio ascoltava rapito le canzoni che galleggiavano nell'aria come delicatissime bolle di sapone, sempre le stesse da quarant'anni in qua, eppure sempre così nuove, fresche, commoventi, struggenti. E la mente soppesava con enorme ammirazione, e a volte quasi con sgomento, la pulsione alla perfezione assoluta che risuonava in quelle note celestiali: la stessa pulsione che - narra la leggenda - ha imposto a João di provare per ben sette anni (!!!) una delle canzoni più celebri di Bruno Martino, "Estate", prima di eseguirla in concerto e inciderla su disco. Cose da non credere, in un'epoca in cui sempre più vale la legge del "buona la prima!" (vero, Mina?).
E così, come in un'apparizione onirica, il Maestro Venerabile cominciava a intessere il suo dialogo subliminale con i tanti (più di cinquecento) aficionados presenti. Dapprima con "Samba de una nota
só", classicissimo "incipit" dei suoi concerti, poi con "Rosa Morena" (dove stai andando, Rosa, con quel fiore fra i capelli e quell'andatura orgogliosa? vieni qui a danzare con noi, perché tutti quanti stiamo aspettando proprio te...) e
"Corcovado", e poi ancora con "Doralice" (te l'avevo detto quanto è stupido innamorarsi... ti ho incontrata in un giorno meraviglioso, e mi son sentito come trascinare via...),
"Eclipse" (una delle poche canzoni nuovissime, di Caetano
Veloso), l'allegrissima "O pato" (l'anatra, l'alzavola, l'oca e il cigno svolazzano tutti insieme verso la laguna, per cantare un gioioso samba...). E poi arrivava il momento di "Estate" (dove, come sempre, le vocali quasi scomparivano, per dar modo alle consonanti di trasformarsi in altrettanti elementi di ritmo),
"Manha de carnaval" (che mattino meraviglioso, una nuova canzone della vita mi sta raccontando dei tuoi occhi, del tuo sorriso e delle tue mani: ci sarà un giorno in cui arriverai a me come il suo della mia chitarra...), "Vivo
sonhando" e "A primeira vez" (la prima volta che ti ho incontrato, ho sognato di essere felice con te... ma quando te ne sei andata, la mia chitarra si è ammutolita e la mia voce è morta dentro di
me...).
Più di due ore, incredibile a dirsi, durava questa meraviglia a occhi aperti. Poi arrivava il momento canonico dei "bis", e qui l'imprevedibile si sommava all'incredibile già presente. Perché il Maestro Venerabile, dopo aver completato una versione da leggenda dell'immancabile
"Desafinado", cominciava a sorridere (!), a chiacchierare con il pubblico (!!), perfino a "improvvisare" (!!!) un'antica canzone del grande compositore messicano Agostin Lara: "mi piacerebbe proprio farvela ascoltare, perché è una canzone davvero bellissima: ma - sarà l'età - non riesco a ricordare nè le parole nè la melodia...", diceva il Venerabile, mentre tentava di rintracciare sulle corde del suo
"violão" gli accordi di quella canzone sconosciuta a tutti. Roba da non credere, per uno che ci ha messo sette anni prima di convincersi a rifare "Estate"! |