E anche per la sua straordinaria voce, ovviamente: temprata fin dalla più tenera età nell'estetica del "gawlo", il "griot" (o cantastorie che dir si voglia) della tradizione africana più antica e pura. Ma per fortuna, a dispetto della sua voglia di conquistare il mondo intero e dell'ormai avvenuta cooptazione nelle schiere della pop music internazionale, tutto questo formidabile patrimonio continua a essere ben presente e pregnante, nelle coordinate musicali del "Leone di Dakar". Lo è nell'incedere martellante dei tamburi "mbung mbung", qui azionati dai formidabili Babacar "Mbaye Dieye" Faye e Jaco Largent. Lo è negli strumenti-guida dello scintillante ensemble che lo accompagna: la "kora", lo "xalam", il "balafon". Lo è, soprattutto, nel ritmo "mbalax" così elastico e suadente, messo a punto dal Leone fin dai tempi ormai lontani delle Super Etoiles de Dakar. E il bello è che tutto questo fascinoso background non viene alla luce soltanto nei tempi più "africani" del disco, cosa del tutto ovvia e naturale. Imprevedibilmente, riempie di sè anche una canzone come "Il n'y a pas d'amour heureux": scritta da Louis Aragon e Georges Brassens quasi quarant'anni fa.
L'intervista
Milano. In una bella mattinata di sole del primo autunno milanese, Youssou N'Dour se ne sta tranquillamente fuori dalla nuovissima libreria Feltrinelli a fumarsi una sigaretta. La gente passa, tutti lo guardano, qualcuno lo riconosce, ma nessuno gli chiede un autografo. Una differenza abissale rispetto a quel che era successo soltanto il giorno prima, quando nello stesso, meraviglioso, book-store di piazza Piemonte aveva fatto la sua augusta apparizione
David Bowie: e centinaia di ragazzi - disperati, angosciati - lo supplicavano della carità di una stretta di mano, di un tocco in punta di dita, di un sorriso fuggevole. E lui niente, se ne stava lì più immobile di una guardia di Buckingham Palace, più impenetrabile di una sfinge d'Egitto, e magari persino scocciato di tanto incontenibile dimostrazione d'affetto. Chissà...
Ora, sarebbe fin troppo facile ipotizzare che una simile differenza di comportamenti sia dovuta al solo fatto che il Duca Bianco è infinitamente più famoso e osannato del Leone di Dakar. Questo è ovvio fino ai limiti della lapalissianità, ma un secondo elemento di divergenza sta probabilmente altrove. Sta nel fatto che Bowie ha deciso di comportarsi in maniera regale fin dai giorni del suo esordio, e Youssou N'Dour invece no. E' ancora il ragazzone affabile e premuroso che avevamo conosciuto ai tempi del debutto con le Super Etoiles de Dakar, più di vent'anni fa. E' ancora il "gawlo" (e cioè il "griot", il cantastorie) straordinariamente rispettoso dei costumi e delle tradizioni del suo paese, il Senegal: e anche per questo, forse, il magazine inglese "Folk Roots" l'ha recentemente nominato "artista africano del secolo". Sta di fatto che questa sua bonomia contagiosa aleggia nell'aria per tutta la durata della conferenza-stampa di lunedì mattina: permea di sè domande e risposte, neanche si fosse in una riunione di famiglia attorno al caminetto.
Youssou, il tuo nuovo disco si chiama "Nothing's in vain", e questo sembra proprio un messaggio di grande speranza...
"E infatti lo è. E' un modo di presentare una faccia dell'Africa forse ancora non troppo conosciuta: una faccia allegra, solare, positiva. E' l'idea di dare a tutti la possibilità di avere una visione di quel che accade nella vita di tutti i giorni: perché niente succede invano, appunto".
Per questo hai voluto dedicare il disco a tua madre?
"Sì, perché lei mi ha dato moltissimo. Mia madre è ancor oggi una grande "griot", e proprio in suo onore mi sono avvicinato, per la prima volta, agli strumenti tipici della tradizione senegalese: la "kora", lo "xalam", il "balafon". In più, moltissime canzoni sono cantate in lingua "wolof" e qualcuna anche in francese: perché così sono io in questo momento, un miscuglio vivente di Africa ed Europa, di "mbalax" e di pop music!".
E molte canzoni sono state registrate nel tuo studio di Dakar, lo
Xippi...
"Certo, e questo per me - per noi - è molto importante. Lo Xippi è uno studio di registrazione molto ben attrezzato, non sfigurerebbe neppure a Londra e a Parigi. Perché - vedete - io sono dell'idea che se vogliamo fare una musica africana molto potente e pregnante, dobbiamo necessariamente utilizzare al meglio la tecnologia dell'Occidente avanzato. Ma - anche - usarla in maniera diversa, molto più partecipata e collettiva. Infatti il mio studio è concepito apposta per suonare dal vivo, e serve da punto di riferimento per moltissimi talenti del mio paese. Così, quando io non lo utilizzo, lo usano loro per suonarci e stare insieme. Ed è proprio bello vedere tutti questi grandi musicisti che arrivano lì con i loro strumenti, con gli amici e le famiglie al seguito. E' come un party, un happening, un rito collettivo!".
E' un'intuizione che già aveva avuto una trentina d'anni fa
l'Orchestra Baobab. Che infatti, ora, è tornata in grande stile...
"Certo, e la cosa mi fa un enorme piacere. La Baobab era la mia orchestra prediletta già vent'anni fa, con quel suo meraviglioso mix di musica dell'Africa occidentale e di Cuba. Loro si erano sciolti proprio quando io ho cominciato la mia carriera, e per molto tempo mi sono sentito quasi in colpa di questo accidente, perché pensavo di avergli sottratto un po' di spazio vitale. Così, ora, il fatto che siano tornati in attività mi dà una gioia immensa".
A proposito di "mostri sacri". I Rolling Stones hanno mediamente sessant'anni, e ancora una volta ritornano in tour per rifare esattamente quel che facevano quarant'anni fa. E invece Toumani Diabate, quando ha compiuto sessant'anni (lo scorso anno), ha deciso di ritirarsi dicendo: "largo ai giovani!". Come giudichi questi comportamenti così antitetici?
"Come li giudico? - ride - Penso che gli Stones siano un'istituzione del rock, anche da un punto di vista strettamente finanziario, e dunque sono quasi obbligati a fare quel che fanno. Quanto a Toumani... io la sua decisione non l'ho proprio capita: è ancora così vitale, così straordinariamente creativo! Però è certo, parlando in senso generale, che la creatività sublime che ha permeato di sè gli interi anni Sessanta e Settanta si è un po' persa per strada: e infatti su tutti noi c'è molta pressione perché ritorniamo a quei livelli di fantasia e di invenzione, ammesso che sia possibile. E dunque, forse, la ragione del ritiro di Toumani sta tutta qui: nel non sentirsi all'altezza di un passato tanto grande e ingombrante. Anche se, personalmente, io non sono per niente d'accordo".
Per chiudere in bellezza, Youssou: qual è il senso profondo di questo "Nothing's in
vain"?
"E' il potere dell'amore. Perché l'amore è straordinariamente positivo anche quando ci fa soffrire, è l'unica cosa al mondo di cui abbiamo realmente bisogno. Sia che si tratti di un amore molto terreno e mondano oppure sublime, supremo, ineffabile e apparentemente inafferrabile".
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