all'unanimità il premio
"African Discovery" quale rivelazione più entusiasmante del Music Festival di
Angouléne, i parenti stretti e gli amici intimi delle due categorie appena ricordate. Ma ora, dopo le interviste concesse nei giorni scorsi, e, soprattutto, dopo i due entusiasmanti concerti tenuti al Café Procope di Torino martedì 3 aprile e al Teatro delle Erbe di Milano la sera di giovedì 5, Rokia Traoré rischia di diventare una delle star più richieste dei festival estivi prossimi venturi. Perché questa giovanissima (25 anni appena) strepitosa chanteuse del Mali non ha soltanto una voce da favola, di quelle che si incontrano una volta ogni dieci anni, ma può vantare una presenza scenica di debordante vitalità, di travolgente energia comunicativa: e questo non potrà non aprirle un'infinità di porte, nei cartelloni delle rassegne più aperte alle nuove tendenze. Ma andiamo con ordine, che è meglio.
L'Intervista
Signora Traoré, lei finora ha realizzato due dischi, entrambi per la francese Label Bleu: "Mouneïssa" e "Wanita". Nel secondo fa la sua apparizione anche Toumani Diabate, uno dei più grandi virtuosi di "kora" del mondo. Come è nata la vostra collaborazione?
"In modo molto semplice. Toumani ed io lavoriamo spesso insieme nel centro culturale di Bamako, la capitale del Mali, e quindi abbiamo già un notevole affiatamento. Ma questa è soltanto la conseguenza di un'intesa precedente e molto profonda, derivante dal fatto che lui ed io siamo molto simili
caratterialmente. Siamo entrambi molto aperti alle novità, alle "musiche del mondo" intese nel senso più vasto e completo: al contrario di tanti nostri connazionali che sono ancora legati alle tradizioni in maniera un po' nostalgica e univoca. E proprio questo spirito di apertura mi ha portato a far convivere nella mia musica il "balafon", lo strumento caratteristico del Bélédougou, la regione da cui provengo, e il "ngoni", quella sorta di "chitarra indigena" prediletta dai "griots" Bambara. A voi un accostamento del genere potrà sembrare irrilevante, ma vi assicuro che per il mio paese è stata una sorta di... rivoluzione!".
Sempre a proposito di spirito di apertura, dicono che lei sia molto appassionata di jazz...
"E' vero, e tutto il merito è di mio padre, che fin da piccolissima mi ha fatto ascoltare un po' di tutto. Ovviamente anche il jazz, soprattutto Weather Report e Joe Zawinul, che ancor oggi è il mio jazzista
preferito. E non escludo che proprio da qui, oltre alla fortuna di aver viaggiato molto all'estero, derivi quel mix di suoni e modi di intonare la voce che oggi costituisce la mia "cifra stilistica" caratteristica...".
Nel suo stile c'è anche un modo molto dolce, ma al tempo stesso straordinariamente forte, di comporre i testi. Ha una fonte di ispirazione privilegiata?
"Sì: la vita, l'esistenza quotidiana. E' da lì che deriva tutto quanto, e da questo punto di vista credo di potermi considerare a pieno titolo una "griot": anche se tutt'altro che convenzionale, per i motivi ricordati prima. E anche per il fatto che molti dei miei testi sono esplicitamente dedicati alle donne, che dal mio punto di vista sono il vero motore del futuro progresso dell'Africa: anche se, per il momento, non sono ancora molto preparate - per tradizione, educazione e cultura - a fare delle scelte: meglio, a prendersi la responsabilità di fare delle scelte. Ma sono del tutto convinta che questo momento arriverà presto, molto presto".
Una "griot" non convenzionale come lei come vede i "griot" ancora saldamente legati alla tradizione mandinga?
Con enorme rispetto, perché è assolutamente giusto preservare questa tradizione antichissima, nata quando la cultura e l'informazione si potevano diffondere soltanto in maniera orale, con il canto e la comunicazione diretta. Ora, ovviamente, questo "medium" così poetico e intimo è stato in larga parte soppiantato dai nuovi mezzi di comunicazione: la televisione, i giornali, il cinema. Ma bisogna fare ogni sforzo per preservare la nostra tradizione, anche se ormai tende a diventare minoritaria. Bisogna farlo per un senso di giustizia, di democrazia e di civiltà. Bisogna impedire, ad ogni costo, la scomparsa dei "griot": anche se molti li ritengono ormai anacronistici".
Anche lei, Rokia, proviene da una famiglia di "griot"?
Non proprio. I Diabate e i Sissoko - grandissimi musicisti del Mali ormai ben conosciuti in ogni angolo del mondo - discendono, tutti, da famiglie "griot". Io no, io provengo da una famiglia di diplomatici e, tornando indietro nel tempo, da un'antichissima famiglia di guerrieri dell'impero Mandè, che poi si è dispersa in vari paesi dell'Africa occidentale - Burkina Faso e Senegal, soprattutto - cambiando anche cognome. Da questi orgogliosissimi guerrieri, probabilmente, ho tratto la mia forza e la mia straordinaria volontà: quella che mi ha permesso di arrivare fin dove sono arrivata. Perché la volontà, quando è ben temprata, ha il potere di farci conquistare cose impensabili!".
Il
Concerto
Breve, un'ora e mezza soltanto, ma intensissimo, vibrante, impregnato fino al midollo di una straordinaria energia vitale. Quella che fa letteralmente sobbalzare dalle sedie i trecento valorosi che hanno stipato all'inverosimile il minuscolo Teatro delle Erbe. Quella che conduce Rokia - elegantissima nel suo bianchissimo abito tradizionale - e i suoi sei meravigliosi compagni di viaggio - due suonatori di "ngoni" e "djembè", uno di "balafon", uno di una bizzarra percussione ricavata da una mezza zucca, di cui ci sfugge il nome, e due scatenate coriste - a fare una selezione sceltissima delle canzoni che compongono "Mouneïssa" e "Wanita", privilegiando quelle più solari, danzabili, cantabili in coro. E mettendo drasticamente da parte quelle più malinconiche, problematiche, introspettiva. Perché è festa grande a Milano, la sera di giovedì 5 aprile, e la "saudade" non è ammessa. Meglio così. |