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Gran bel titolo questo "Travelogue", non c'è che dire: preciso, esplicito, diretto. Significa, letteralmente, "conferenza su un viaggio con proiezioni". E allora, ragionando sui singoli termini, non c'è dubbio che il |
viaggio sia quello - musicale, mentale, spirituale - intrapreso dalla nostra Lady of Canyons fin dalla metà degli anni Sessanta. E la conferenza siano le sue canzoni, tanto raffinate, discrete, understated quanto straordinarie. E le proiezioni, dulcis in fundo, i suoi dipinti, che fanno splendida mostra di sè nel libriccino accluso all'album (doppio). Ma è anche un titolo che ha il sapore amaro dell'addio, "Travelogue". E infatti gira voce che questo non sia soltanto "the latest album" di Joni Mitchell, ma proprio "the last one", l'ultimo in assoluto. Troppo arrogante, fatuo, invadente è diventato in questi anni il mercato della musica, per non turbare i gusti di chi ha sempre fatto dell'eleganza e dello stile le sue cifre espressive assolute. Quindi, a meno di clamorosi ripensamenti, rassegniamoci a considerare questo disco alla stregua di un testamento spirituale della nostra Lady. E ascoltiamo con l'attenzione che meritano i suoi classici di sempre, da "Woodstock" a "God must be a boogie man", da "Hejira" a "Chinese café". Rifatti da una grande orchestra tanto numerosa quanto scintillante, dove brillano di luce propria "guest star" come Herbie Hancock, Wayne Shorter e Kenny Wheeler. |