e
svariati altri
epigoni suoi. Metti di transitare per il padiglione che ora ospita
quello che fu il Salone delle Feste del Conte Biancamano, ovviamente
dedicato all'omonimo transatlantico di svariati decenni fa, gloria e
vanto (insieme all'Andrea Doria) dell'intera marina italiana. E metti
che lì dentro, per una volta, non si parli tanto di cavalli a vapore,
di rotte transoceaniche e di "muscoli del capitano", tanto
per ricordare il De Gregori più rigoroso ed essenziale. Ma,
piuttosto, di canzoni. Che un tipo smilzo e dinoccolato,
imprevedibilmente nevrile, intabarrato dentro un inappuntabile frac e
con l'immancabile, lucentissimo cilindro appollaiato sulla testa,
introduce più o meno così: "Le canzoni a manovella che noi
abbiamo provveduto a inventare sono canzoni immaginarie. Per
rappresentarle occorre che, dietro al sipario a soffietto
ascensionale, si sia provveduta la strumentazione necessaria:
grancasse sinfoniche, piani chiodati e a rullo, trombe a grammofono,
chitarre, onde martinot, ululatori e stropicciatori a valvola,
orchestrioni, corni da caccia, violini a tromba, turbanti, cilindri,
sollevatori bulgari e aerostatici".
Va
da sè che l'elenco appena presentato, compilato con una meticolosità
e un'attenzione per i particolari davvero encomiabili, potrebbe
benissimo essere stato concepito da Luigi Russolo, l'esteta del
futurismo inventore della "macchina intonarumori". Oppure
anche, perché no, da Alfred Jarry: lo scrittore francese ideatore
della "patafisica", altrimenti detta "la scienza delle
soluzioni immaginarie", destinata a studiare le leggi che
regolano le eccezioni. Niente di tutto questo, invece. La lista in
questione è infatti parte integrante del nuovo disco - "Canzoni
a manovella", appunto, in uscita il 6 ottobre prossimo per i tipi
della Cgd - di quel tipo dinoccolato citato appena sopra: che -
l'avrete già intuito - altri non è se non Vinicio Capossela. Ma,
quella lista, è anche il corollario essenziale della vena di
"lucidissima follia" - che in questo caso non è certo un
difetto, ma anzi una virtù - che da alcuni anni a questa parte
accompagna come un'ombra maliziosa il cantautore padano, in realtà
nato (per puro caso) ad Hannover, il 14 dicembre del 1965.
Chi
l'ha seguito passo passo nel corso della sua ormai decennale carriera
- iniziata nel 1990 fa con l'album "All'una e trentacinque
circa", subito premiato al Club Tenco di Sanremo quale miglior
opera prima - sa che un cruccio ha sempre turbato i placidi sonni di
Vinicio: quello di essere considerato, dapprima, un clone del grande
Paolo Conte, e, poi, un'imitazione nostrana di Tom Waits, il poeta
"maudit" di California. Accuse del tutto ingiustificate, in
realtà, visto il caleidoscopico scintillìo di invenzioni,
ispirazioni e partecipazioni messo in piedi da un bel po' di tempo a
questa parte. Un manuale di eclettismo che Capossela sintetizza più o
meno così: "Ho scritto canzoni d'amore e di vita, di giorno e di
notte, serenate e bagatelle, a volte autobiografiche e a volte no. Ho
preso a prestito musiche di altri, prime fra tutte quelle della
Koçani Orkestar di Macedonia. Ho suonato insieme a Cesar Stroscio
quella tipica "musica d'assenza" che è il tango, ovviamente
di Annibal Troillo. Ho sonorizzato al pianoforte un classico del film
muto come "Tempi moderni", di Charlie Chaplin, e curato
l'immaginario musicale di "Scatafascio", la trasmissione
tivù di Paolo Rossi. Tutto questo con il fine ultimo di dar vita e
sostanza alla mia personalissima concezione della musica: che è come
una grossa catena di gente che cerca di spegnere un incendio
passandosi il secchio di mano in mano".
Quest'ultimo
secchio, di certo il più ambizioso e corale fra tutti quelli
concepiti finora, è dedicato, in toto o quasi, a Louis-Ferdinand
Céline: "L'uomo che più di ogni altro ha saputo interpretare lo
"Zeitgeist", lo spirito del suo (e nostro) tempo. Uno
scrittore di cui trovo straordinariamente affascinate la cosidetta
"Trilogia del Nord", con tutta quell'Europa distrutta,
quella Germania a pezzi, quei treni che continuano a correre mentre la
ferrovia salta in aria dietro di loro. E poi il mar Baltico, l'esilio,
la spiaggia, la capanna di Korsor... Fantastico!". Ma le
"Canzoni a manovella" sono anche dedicate, ovviamente, al
già ricordato Alfred Jarry, soprattutto per via di una composizione
chiaramente ispirata alla "Chanson du decervelage", cantata
in "Ubu Re". Trattasi di "Decervellamento", di cui
Capossela ricorda la genesi così: "L'avevo scritta nel 1993, per
lo spettacolo "Pop e Rebelot" di Paolo Rossi, quando iniziai
a innamorarmi non soltanto della scienza patafisica, ma anche del
revolver e dei pantaloni da ciclista di Jarry. Attendevo l'occasione
giusta per metterla su disco, e ora, finalmente, eccola qua".
Già,
l'occasione giusta è proprio questa qua, come ricorda a modo suo
l'impareggiabile Vinicio. "Questo è un disco di cose che vengono
dal profondo, che affiorano a galla in scafandro e cilindro. E'
fabbricato con mezzi espressivi più leggeri dell'aria, tecnica di cui
siamo sostenitori. E, per realizzarlo, ci si è ingozzati di emozioni,
e di suggestioni, e di musiche, in una specie di abbuffata secolare e
questo è in definitiva il risultato". Splendido e vibrante, non
c'è che dire. Grazie anche alla maestria dei musicisti convenuti,
primo fra tutti il chitarrista Marc Ribot, e, soprattutto, al
formidabile lavoro di orchestrazione e arrangiamento messo in piedi
per l'occasione da Tommaso Vittorini. Un "navigatore di
suoni" con cui Capossela non ha mai cercato di comunicare per
spartiti, forse perché sarebbe risultato del tutto impossibile, ma
soltanto per immagini e visioni: "quasi sempre i quadri di
Chagall, soprattutto sui cromatismi dei rossi e dei blu". Vista
la natura dei due drudi in questione, non ne avevamo il benché minimo
dubbio. Chapeau!
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