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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Hooverphonic
"JACKIE CANE"
il concerto di Milano

Jackie Cane: chi era costei? La domanda è alquanto ardimentosa, ma stando a quanto scritto nelle note di copertina del disco - proprio dietro all'ossigenatissima vamp di rosso vestita, che ti guarda in tralice dall'alto dei suoi tacchi assassini:

"fuck me heels", come direbbero gli americani - Jackie Cane era una grande pop singer che si è distrutta la vita con le sue stesse mani inseguendo futilissime chimere di gloria, fama e denari. Ok, passiamo dunque alla seconda domanda: Hooverphonic, chi sono costoro? Qui la risposta è molto più semplice, perché trattasi del pop group più famoso del Belgio. Un trio per la precisione, che ha come eminenza grigia il multistrumentista Alex Callier e come immagine-simbolo la chanteuse Geike Arnaert: vale a dire la biondona della copertina, una dark lady dalla voce tenebrosa, enigmatica come un intrigo di Alfred Hitchcock. Proprio su questa voce - che ricorda alla lontana la Margaret Frazer dei Cocteau Twins - fa leva il trio per architettare un "concept album" dalle movenze di un musical, a volte leggiadramente pop e altre volte intriso di cupe atmosfere à la Kurt Weill. Un mélange apparentemente improponibile, per non dire indigesto, e che invece diventa sempre più appetibile canzone dopo canzone, ascolto dopo ascolto.

Il concerto

Milano. Certo che rientrare da un "ritiro" di due settimane in India e imbattersi subito in un concerto degli Hooverphonics... è un po' come tornare dalla mamma e ritrovarci gli stessi dolcetti che ci avevano deliziato in gioventù: fragranti, profumatissimi, appena estratti dal forno. Solo che, in questo caso, la "mamma" in questione è molto, molto particolare: molto giovane (trent'anni o giù di lì), molto sofisticata, molto truccata, molto platinata. Non bellissima, no davvero, ma provvista di un fascino, di uno charme, di una sensualità, squisitamente tenebrosi e intriganti. Paiono tratti di peso da un "noir" degli anni Quaranta, stile Chandler e Hammett, meglio se ambientato nei bassifondi di Los Angeles, attorno a un pianoforte a mezzacoda che ha visto stagioni migliori, in mezzo a coni di luce opalina attraversati da continue volute di fumo azzurrognolo. E poi, non bastasse, ci sono quei "dolcetti": adorabili, appunto. Dolcetti dell'ugola più che del palato, smozzicati a mezza voce con languori da femme fatale, avviluppati attorno a giri di basso che un po' ricordano l'incedere ipnotico dei Roxy Music di "Manifesto, anno di grazia 1979, e un po' gli accordi al cardiopalmo confezionati da Angelo Badalamenti per la serie di "Twin Peaks". Roba che ti afferra alla gola e non ti molla più. Musica soavemente letale, vorremmo azzardare: l'antitesi più radicale ed estrema dei "Tamil Devotional" ascoltati per quindici giorni filati dalle voci delle Tulangalam Sisters dalle parti di Tiruchirapally. Ma questo è un altro discorso.
Il discorso in questione, invece, riguarda la femme fatale di rosso vestita. Che si chiama Geike Arnaert ed è l'immagine-simbolo degli Hooverphonic, la band più famosa del Belgio: formata, oltre che da lei, dal bassista e computerista Alex Callier, la mente riconosciuta del gruppo, e dal chitarrista Raymond Geerts. Tutta gente già attiva da quasi un decennio, ma che soltanto ora, dopo gli esordii hip-hop di "A New Stereophonic Sound Spectacular" e la fusion elettro-acustica di "Blue Wonder Power Milk", sembra aver trovato la definitiva quadratura del cerchio. In parte per una messa a punto del sound sempre più matura e convincente, grazie all'inserimento di una ritmica implacabile e di una sezione fiati davvero scintillante e magmatica, degna di un "jazz combo" coi fiocchi. Ma, ancor di più, per il coraggio, davvero encomiabile, di abbandonare il presente e il futuribile per riguardare con occhio attento il passato lontano, senza però alcuna nostalgia nè sciagurato rimpianto. Un po' come aveva fatto, in pieni anni Ottanta, seppur in modo completamente diverso, Matt Bianco con la sua riscoperta della bossa-nova. 
Qui, invece, l'elemento di attrazione fatale è costituito non tanto da uno stile - la bossa, appunto - quanto da un personaggio in carne e ossa dello star system: Jackie Cane, grande pop-singer che ha visto la sua vita distrutta dalla sfrenata ambizione di successo, fama e gloria. Ed è proprio per Jackie Cane che Geike Arnaert canta, in "The World Is Mine": "Inspira la gioia, inspira il divertimento, per me è arrivato il tempo di salire sul tetto del mondo. Inspira la musica, inspira il calore, la gente è pronta a portarmi sul tetto del mondo". E proprio in Jackie Cane la nostra Geike è pronta a trasformarsi, proprio come ha fatto la grande Tori Amos nei suoi ultimi due album: platinandosi i capelli come Jayne Mansfield, incapsulandosi dentro abiti rossi dalle scollature vertiginose, ciondolandosi su tacchi a spillo alti come guglie del Duomo. "Fuck me heels", tanto per citare la ficcante definizione americana dell'articolo in questione.
Qunado Geike e i suoi sei prodi compaiono sul palco del Propaganda, verso le 10 di sera di giovedì 28 novembre, tutto, sulla scena, richiama alla perfezione gli elementi decorativi dell'ultimo album degli Hooverphonic. Rosso cupo sono i tendaggi, fioche e fumose le luci, spettrali i riverberi generati dai tecnici del mixer, quasi a voler rendere le atmosfere sonore ancor più "weilliane" che su disco. E' un mélange davvero singolare, quello cui assistono non più di trecento spettatori trepidanti e impazienti. Pare quasi il suicidio annunciato di una "pop band", da sempre insofferente a essere inserita in un filone dove sguazzano a loro piacimento tutte le Britney Spears del pianeta. Pare quasi l'annuncio ufficiale di nascita di un nuovo "filone estetico", dove convergono a loro piacimento certe cupezze à la Cocteau Twins, certi espressionismi à la Kurt Weill, perfino certe psichedelie dei primissimi Pink Floyd (senza per altro dimenticare i già ricordati Roxy Music e Angelo Badalamenti). Proprio a questo serve, in definitiva, la voce tenebrosa, enigmatica, della nostra Signora in Rosso: a connettere fra loro fili apparentemente inavvicinabili, a sussumere tutto quanto dentro uno stile unico, fascinoso, riconoscibilissimo. E questo, a pensarci bene, è l'ultimo dono lasciatoci in eredità dalla sventurata Jackie Cane.

  Di Roberto Gatti

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