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a cura di Roberto Gatti

 

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Potrà sembrare strano (o forse no): ma l'andamento depresso delle borse mondiali, dall'ormai famigerato "lunedì nero" del 19 ottobre 1987 a oggi, non ha fatto sentire le sue ripercussioni solo sui risparmiatori, sui piccoli azionisti, su quella massa sterminata di yuppie e rampanti così sapientemente messa alla berlina da Tom Wolfe nel suo libro "Il falò delle vanità". Sorprendentemente - ma neanche tanto - ha contribuito in maniera inequivocabile anche a mutare i destini di un "sotto-genere" ben preciso della Musica Giovane di questi ultimi anni: quello conosciuto con l'acronimo NAM, alias New Age Music (in lingua: Musica della Nuova Era).

Per chi ancora non lo sapesse, la New Age Music era stata inventata qualche anno prima - per la precisione, nel 1981 - da due coniugi californiani, Will Ackerman e Anne Robinson, che alternavano il loro lavoro quotidiano - lui faceva il falegname; lei, più o meno, la casalinga - con la pratica musicale nella cantina della loro casa di Palo Alto. Da buoni ex hippy transustanziatisi in yuppie (e chissà con quale convinzione...), ne avevano le tasche piene della musicaccia caotica e assordante, zeppa di enfatismo "dance", che erano costretti ad ascoltare tutti i giorni sulle lunghezze d'onda delle radio private della West Coast: sognavano una musica "pulita" ed ecologica, intrinsecamente meditativa ed essenzialmente strumentale, pregna di quelle sonorità quiete e soffuse così tipiche del "cool jazz" di trent'anni prima. E proprio questo tipo di "musica nuova" si allenavano a fare, nelle loro quotidiane sedute di sperimentazione nella cantina sotto casa. Finchè, un bel giorno, grazie all'entusiasmo irrefrenabile dei tanti amici che regolarmente invitavano ai loro "private parties", decisero di tentare il grande passo: incisero il meglio delle loro invenzioni su un ellepì a basso costo, e inviarono il tutto a un disc-jockey di Boston di loro conoscenza, perchè lo diffondesse via etere dalla radio in cui lavorava.

"In the search of the turtle navel" si chiamava quel primo reperto di NAM, firmato per le musiche da Will Ackerman e per l'immagine di copertina da sua moglie Anne; e fu - quasi inutile dirlo - un trionfo di portata inaspettata. Agli ascoltatori, infatti, piaceva quella musica così soffice di chitarre e di tastiere, e così evocativa delle "good vibrations" del bel tempo andato: così diversa, in ogni caso, dall'inascoltabile "tumpf-tumpf" della "dance", non ancora trasformatasi in "house", in "acid" e in "garage". E, inaspettatamente, piaceva soprattutto a quella particolare nicchia di pubblico - composta essenzialmente da manager, yuppie e rampanti dediti all'efficientismo più estremo - che dalla musica si attendeva in primo luogo una sorta di "terapia distensiva" e di "ripristino auricolare", in grado di cancellare dalla mente (ma anche dal sangue e dai nervi) le conseguenze delle stressanti sedute di contrattazione a Wall Street. Per questo, a dispetto delle motivazioni prettamente ecologiste di Ackerman e Robinson - che non a caso avevano inserito nel titolo del loro primo lavoro due simboli inequivocabilmente evocativi come la "tartaruga" e l'"ombelico" - la NAM fu, fin da subito, indissolubilmente legata ai destini del "rampantismo", dell'"edonismo reaganiano", dell'"efficientismo" più vieto e deteriore (che ovviamente, per rendere al meglio, ha assoluto bisogno di una pausa di profondissimo relax). Ancora per questo, immediatamente, l'equazione "New Age = Yuppismo" non fu considerata un dato prettamente casuale, dettato da una singolare convergenza di destini fra motivazioni assolutamente antitetiche fra loro: ma, al contrario, un elemento univoco e predeterminato, inoppugnabile, eterno nel tempo e immutabile nello spazio.

Non deve assolutamente sorprendere questa rigidità classificatoria di così chiaro stampo manicheo. Non deve sorprendere per due ottime ragioni. Innanzi tutto perchè, da sempre, non esiste "filone" della Musica Giovane che non sia stato mummificato dentro un aggettivo (o un sostantivo) "forte": tant'è vero che il rock 'n' roll è "rivoluzionario" per definizione, il blues "triste", il soul "passionale", il punk "anarchico", l'heavy metal "bianco e violento" (e la casistica potrebbe continuare all'infinito). In secondo luogo perchè, a un ceto sociale come quello degli yuppie, non poteva essere sufficiente, come criterio "interno" di riconoscibilità e di complicità, il rito materialisticamente pragmatico della contrattazione in borsa, del distacco delle cedole, della circolazione del capitale finanziario. Occorreva un qualcosa di più aereo e sottile, vorremmo dire meditativo e trascendentale: e la NAM, con il carico di "Nuova Era" che portava dentro di sè, così apparentemente distaccato da tutte le grettezze del mondo reale, rappresentava quanto di più adatto fosse disponibile in "quel" tempo e in "quelle" condizioni.

Non bastasse tutto questo, la New Age cominciava anche a rifocillarsi di dati quantitativi tutt'altro che disprezzabili. Tant'è vero che "December", disco esclusivamente pianistico di George Winston, aveva raggiunta la quota di 2 milioni di copie vendute (nei soli Stati Uniti). E poi la Windham Hill, l'etichetta discografica creata ad hoc dai dinamicissimi coniugi Ackerman, cominciava a essere subissata di richieste: dal Giappone e dal Canada, dal Sud America all'Europa, Germania in testa. Last but not least - grazie ai talloncini astutamente inseriti dentro ogni disco Windham Hill - iniziava a prender forma, su tutta la faccia del globo terracqueo, lo "zoccolo duro" degli ascoltatori di NAM: che compilavano la loro cartolina postale, la spedivano all'apposito ufficio di Palo Alto, e ne venivano contraccambiati con un "ritorno di informazioni" a dir poco mastodontico (quali erano gli altri acquirenti abituali di NAM, quali "new ager" ascoltavano preferibilmente, quali dischi erano disposti a scambiarsi fra di loro, a quali "fan club" - chiamiamoli così - erano iscritti, e via di questo passo). Insomma, le cose procedevano a meraviglia. Tanto bene che non ci sorprenderemmo per nulla se Tom Wolfe, nel suo prossimo libro sulla caduta del "mito yuppie", dovesse prendere spunto non soltanto dalla raffinatissima "mailing list" della Windham Hill, zeppa di segreti come e più degli schedari del KGB: ma anche da tutte le riviste mensili, specializzate e non, sorte come funghi attorno al "fenomeno NAM" dalla metà degli anni Ottanta a tutt'oggi.

Oppure anche, perchè no?, dalla tipologia di tutte le altre etichette discografiche - piccolissime, piccole e medie - immediatamente impiantatesi sul mercato internazionale per seguire l'esempio della Windham Hill. Vogliamo buttar lì un po' di nomi, tanto per verificare da vicino la capillarità del fenomeno? Eccoli: Badland, Blue Flame, Chase Music Group, Feels So Good, GRP, Higher Octave, Innovative Communication, Music West, Narada Music (saggiamente distinta fra Equinox, Lotus e Mystique), Nova, Private Music, Prudence, Sonic Edge, Spindletop Records, Tall Tree Records, TBA, River Music, Tuxedo Music. A queste etichette, tutte americane, tutte create a immagine e somiglianza della "grande mamma" Windham, occorre poi aggiungere le tedesche Nebula Records e Racket Records, le italiane Folies Art e Strumento, e chissà quante altre casupole indipendenti del Giappone e della Norvegia, dell'Islanda e della Scozia. E anche, dulcis in fundo, la prestigiosissima ECM di Monaco di Baviera.

Giunti a questo punto, sappiamo già quale sarà il moto di sorpresa dei militanti della Parrocchietta del Jazz Verace. Diranno: "Ma come, la ECM non è l'etichetta che ha inventato il mito di Keith Jarrett e Pat Metheny, che ha dato da mangiare ai "radicali" della Globe Unity, che ha rivitalizzato Don Cherry e Charlie Haden, che ha ospitato l'opera omnia di Carla Bley, che ha fatto conoscere in tutto il mondo Egberto Gismonti e Jan Garbarek, Terje Rypdal, Jack De Johnette, Meredith Monk e Shankar? Che ci fa, una "jazz oriented label" come la ECM, nel mare magnum della NAM?". La domanda non è priva di una sua (più che legittima) logica. Ma la risposta, senza neppure scomodare la formula tanto cara a Sir Arthur Conan Doyle - "elementare, Watson" - non può che suonare scontata, ovvia come piacerebbe a monsieur de La Palisse. Nell'iscriversi al club della New Age, la ECM - come, del resto, tante altre etichette pari grado - non ha fatto altro che seguire le leggi immanenti del mercato. Che nel frattempo - visto che abbiamo ormai abbondantemente superato il traguardo temporale del "lunedì nero" del 1987 - hanno completamente mutato l'identità interna della NAM: l'hanno trasformata, da "fenomeno musicale" qual era, in un puro reperto di marketing, provvisto di regole proprie, di "packaging" ben caratterizzato (l'elegia delle copertine, innanzi tutto), di precisi criteri di riferimento (le famose "good vibrations", più o meno). Tanto che ormai basta stampigliare sull'esterno del disco il magico binomio "New Age", per avere immediatamente a disposizione, in ogni angolo del mondo, alcune decine di migliaia di acquirenti.

Se vi ricordate, un accidente del genere era stato sperimentato anche con il rock 'n' roll, ai tempi della sua massima esplosione planetaria. Erano i tardi anni Cinquanta, e anche allora era sufficiente classificare qualunque cosa come "rock" - dalla melassa di "It's now or never", di Elvis Presley, ai patetici pigolii di Pat Boone - per avere interminabili schiere di clienti alla porta dei negozi di dischi. E adesso - in piccolo, molto in piccolo - il fenomeno si ripete con la New Age. Tanto che, da tre o quattro anni a questa parte, in quello che abbiamo definito "sotto-genere" (ma che ora, più propriamente, potremmo ribattezzare come "espediente di marketing") confluiscono tutti, ma proprio tutti: i jazzisti Pat Metheny e Chick Corea, gli avanguardisti David Van Tieghem e Anthony Braxton, i meditativi Mark Isham e Jon Hassell, gli appassionati di "vibrazioni cosmiche" come i Tangerine Dream (e i Popol Wuh, e gli Ash Ra Temple), il barocco Jean Michel Jarre, i fusionisti Billy Cobham e Billy Ocean, la "soul sister" Nona Hendryx, i campioni del blues fané Canned Heat ed Eric Burdon. E chissà quanti altri ne tralasciamo.

Dicono i soloni della NAM che questa evoluzione è, in ultima analisi, assolutamente naturale: perchè, come ricorda P. J. Birosik in un recentissimo numero di "Billboard", "la New Age è un po' come la moda: deve adattarsi alle mutate esigenze del pubblico, deve cambiare insieme a lui". Sarà anche vero. Ma a noi, che non abbiamo mai amato le classificazioni di genere (soprattutto se queste sono dettate non da concezioni estetiche, ma da pure esigenze di commercio), questo cannibalismo di cui la NAM pare abbondantemente provvista fa un po' specie e un po' terrore. D'accordo che l'Armata Yuppie pare ormai allo sbando come le truppe del generale Cadorna a Caporetto; d'accordo che le conseguenze del "lunedì nero" sono ancora ben lungi dall'aver esaurito tutti i loro effetti, anche sul versante della Musica Giovane; d'accordo che i "gusti del pubblico" - quei gusti che, almeno a parole, tutti vogliono privilegiare e rispettare - richiedono a gran voce, qui e ora, un immediato ritorno al fascino della vocalità e dei suoni naturali, e premono irresistibilmente per la creazione di un nuovo sincretismo musicale.

Ma, dato per scontato tutto questo, ci pare ugualmente un po' folle, per non dire mistificatoria, l'affermazione di Howard Martin, general manager della Planetary Productions: "la NAM è ormai la sintesi suprema di tutte le musiche del mondo. Perchè, grazie a Paul Simon e al suo disco "Graceland", abbiamo capito di poterci tranquillamente inserire anche nel filone della World Music: un filone in nettissima fase di espansione". Molto meglio, allora, l'onestà mercantile di cui dà prova Ethan Edgecombe, manager della Fortuna Records, quando candidamente ammette: "Il termine 'New Age' è ormai molto cotroproducente, soprattutto in Europa e in Asia: confonde le idee della gente, la spinge verso altri prodotti discografici, perchè ormai in questo termine si trova tutto e il contrario di tutto. Abbiamo urgentemente bisogno di un neologismo più 'trendy' e più efficace". Ma no, mister Edgecombe, non sia così pessimista: non di un neologismo più efficace abbiamo bisogno. Quel che ci pare urgente, semmai, è lasciar liberi Paul Simon (e Sting, e Peter Gabriel, e David Byrne, e chissà quanti altri ancora) dalla gabbia dorata in cui sono stati così subdolamente richiusi, contro la loro stessa volontà. E augurare alla New Age un tranquillo, eterno riposo. Amen.

  Di Roberto Gatti

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