Giambattista Marino, vivo e vegeto a Napoli (e poi a Roma,
Ravenna, Torino e Parigi) fra il 1569 il 1625 -
aveva dalla sua soltanto l’intuizione visionaria, e un
livore feroce per Gaspare Murtola, a sua volta poeta nonchè
segretario del Duca di Napoli. Nient’altro. Infatti,
dati i tempi, non poteva certo applicare le sue folgoranti
categorie a un qualche campo dello scibile umano che non
fosse immediatamente riconducibile all’alterco delle
rime, alla possanza delle allitterazioni, alla complessità
delle architetture stilistiche.
E
se anche ascoltava musica - e sicuramente l’ascoltava,
dal momento che la sua "Murtoleide" recava per
sottotitolo la specificazione: "fischiate" - di
certo non poteva prevedere che, attorno al crepuscolo del
millennio, un minuscolo londinese di origine irlandese -
tale Declan Patrick McManus - l’avrebbe preso a pretesto
per edificare uno degli spettacoli più singolari, e
stupefacenti, di tutto lo show business della
Musica Giovane (categoria forse un po’ balzana, ma che
in quegli anni ancora conservava una sua legittima ragion
d’essere).
Correva
dunque l’anno 1986, e il McManus - che da tempo amava
farsi chiamare Elvis Costello, avendo preso a prestito il
nome da Re Presley e il cognome dalla nonna materna - era
già un divo discretamente affermato in campo rockistico:
un po’ per le meravigliose canzoni che da più di un
decennio andava componendo, un po’ per la dimensione
"Fifties style" (occhialoni spessi alla Buddy
Holly, abiti oltremodo sgargianti, ciuffo carpiato
all’indietro) dentro la quale soleva acquattarsi. Ma per
emergere del tutto, ancora gli mancava quel guizzo, a metà
strada fra il rigore creativo e la follia stralunata, che
sempre caratterizza il genio talentuoso. Ed ecco allora il
"coup de foudre" da lungo tempo accarezzato: un
tour di tre sere a città, il "Costello Show",
totalmente progettato all’ombra di una gigantesca Ruota
della Fortuna piazzata nel bel mezzo del palco, con la sua
storica band - gli Attractions - schierata a semicerchio
tutt’attorno. Una Ruota semplicissima, del tutto
identica a quella utilizzata per decenni nell’omonimo
show: ma caratterizzata, nei cinquanta e più
"spicchi" in cui è suddivisa, non
dall’enunciazione di improbabili elettrodomestici
graziosamente offerti da un altrettanto improbabile
sponsor, bensì dai titoli delle canzoni (famose,
semi-sconosciute, ignote) che Costello e i suoi
bardi sono pronti a eseguire. Di modo che uno spettatore
qualsiasi via sul palco, fa girare con mano lesta la
gigantesca Ruota... e quel che esce, esce. E viene
immediatamente trasformato in note
roboanti-eclatanti-dirompenti, per la gioia di grandi e
piccini.
E’
la scoperta dell’acqua calda, dirà a questo punto lo
scettico di turno: e, tutto sommato, è anche vero. Ma,
d’altra parte, è altrettanto vero che nessuno, fino
allora, aveva arrischiato tanto: neppure il grande Frank
Zappa, che pur costruiva i suoi concerti senza il
beneficio di alcuna scaletta, e li architettava come un
"unicum" indistinto di due ore e passa, senza
soluzione di continuità fra una "canzone" e
l’altra. Costello invece ci riesce, eccome.E mette
definitivamente a tacere tutte le accuse di kitsch che
proditoriamente lo accompagnano da quando ha iniziato a
calcare le scene del rockismo militante: dapprima ai
microfoni di Capitol Radio (grazie ad alcuni
"demos" proposti con indubitabile acume dal DJ
Charlie Gillett), poi attraverso gli ellepì prodotti
dalla Stiff Records, la prima etichetta indipendente
londinese. Certo, fa un po’ specie veder accostati, uno
di seguito all’altro, il country di "Almost
blue" e il pop scintillante di "Imperial
bedroom", il fondamentalismo a stelle e strisce di
"King of America" e le scorie new wave di
"This year’s model". Ma è proprio questo
eclettismo estremo, sorretto da una voce agro-dolce che
non ha eguali, la chiave di volta dell’intera
operazione. E se a queste virtù si aggiunge una capacità
di scrittura che, a parere di molti, non brillava così
luminosa dai tempi lontani di Lennon-McCartney, allora il
cerchio si chiude davvero. E parla nel nome di una
"pulsione alla meraviglia" che è, al tempo
stesso, mezzo e fine di un’intera parabola artistica.
D’altra
parte, sotto quale altra categoria - se non quella
dell’eclettismo più tagliente, colto e scintillante -
si potrebbe catalogare l’esperimento del 1993: quelle
"Juliet letters", compilate in combutta con il
Brodsky Quartet, in cui Costello riscrive dalle fondamenta
il dramma di Romeo e Giulietta? Lui sostiene che lo spunto
gli è stato fornito dalla metodica sistematicità con cui
un accademico di Verona risponde da anni alle lettere
indirizzate a Giulietta Capuleti, ma, a pensarci bene,
sotto c’è ben altro.C’è la voglia di non
fossilizzarsi su alcun "genere"
precostituito.C’è la sfida di dimostrare a se stesso di
essere prolifico come ai vent’anni. C’è, soprattutto,
il desiderio di continuare a stupire il mondo intero:
questa volta nella sua variante "alta", dopo
aver per anni sondato quella "bassa".
E
infatti, dopo la parentesi "colta" (e in un
qualche modo shakespeariana) delle venti Lettere, ecco il
rapidissimo ritorno al passato, o se preferite al
futuro.Dapprima con il caleidoscopio di "Kojak
variety" (1995), scintillante rilettura di alcuni
evergreen di Bob Dylan, Randy Newman, Kinks e Burt
Bacharach. Poi con lo sperimentale "Deep dead
blue" (1995), forgiato al calor bianco in compagnia
di Bill Frisell. Poi ancora con l’obliquo "All this
useless beauty" (1996), dove Costello rivede, insieme
ai suoi amatissimi Attractions, un bel po’ di canzoni
(sue) fino allora terreno incontrastato di pascolo di
altri famosissimi interpreti. Infine con il recentissimo
"Painted from memory", Premio Tenco 1998, in cui
riallaccia il discorso - peraltro mai abbandonato del
tutto - con il suo vecchio amico Burt Bacharach: per
accreditarsi, questa volta, nei panni del
"crooner" senza macchia e senza paura.
E
dunque, per ritornare all’origine di queste brevi note:
davvero vogliamo riservare a un tipo del genere - un tipo
che a 43 anni appena compiuti (il 25 agosto '98, per
l’esattezza) ha già toccato con mano l’intera
tavolozza dei suoni possibili, e l’ha scomposta e poi
ricomposta in mille maniere e diecimila sfumature, tutte
quante originalissime - la "striglia" che sempre
si abbatte su chi non fa della "meraviglia" la
filosofia di un’intera vita artistica? Non scherziamo,
per favore! E riserviamo piuttosto ad altri, ai tromboni e
ai marpioni innanzi tutto, questa (purtroppo)
decadutissima ammenda corporale. |