di Milano. Ma, forse,
anche il termine "concerto" è tutto da rivedere e
ripensare. Perché, più che altro, il suo è stato una carezza, un
soffio dello spirito, un abbraccio trepido e delicatissimo al tempo
stesso. Denso di sublime "understatement" e privo di
qualsiasi enfasi. Pieno zeppo, in compenso, di colori sfolgoranti e
ultra-solari, i gialli che si trasformano in arancioni, i verdi in
rossi tenui, e questi in blu sfolgoranti e luminosissimi, tali e quali
a quelli che - dicono i bene informati - troneggiano in Paradiso. E
zeppo anche - e soprattutto - di suoni stupefacenti e altrettanto
solari, prodotti da una band che sembra "il resto del
mondo", tanto è multirazziale e incredibilmente versatile,
abilissima nell'affrontare ritmi e melodie di ogni angolo del globo.
Una band con undici volti ma praticamente senza nomi, a parte quello
del veterano Steve Gadd alle percussioni: perché il comunicato
ufficiale non li esplicita, e non certo per dimenticanza o, peggio
ancora, per tracotanza. Ma, essenzialmente, perché così vuole la
già ricordata legge dell'"understatement", tanto cara a
Paul Simon. Che ne è, ovviamente, il prim'attore e il protagonista
indiscusso.
Già
non aveva il "physique du rôle" della rockstar quando aveva
iniziato a cantare, Simon, all'incirca quarant'anni fa.
Ma ora, a sessant'anni quasi scoccati, il nostro Piccolo Grande Uomo
pare tutto - nell'ordine: un tranquillo pensionato, il giardiniere
della porta accanto, il libraio del "bookstore" all'angolo -
piuttosto che un divo della canzone. E' minuscolo e tutto vestito di
nero, e l'unica civetteria che si concede è quel buffo cappellino
rosso da giocatore di baseball, che indossa più che altro per
nascondere la calvizie alquanto incipiente. Ma quando la parola cessa
di essere parlata (ben poche cose, in verità: più che altro la
grande emozione di essere di nuovo sul palcoscenico, un luogo che lui
non ama a dismisura) per diventare stupendamente cantata, ecco che il
miracolo si compie di nuovo.
E tutti coloro che hanno orecchie per intendere - di sicuro i tremila
accorsi sabato sera al PalaVobis - immediatamente comprendono di avere
a che fare con uno dei massimi interpreti della canzone americana
contemporanea. Forse, addirittura, con uno dei componenti della
"santissima trinità", insieme a Bob Dylan e a Tom Waits.
Nelle
sue canzoni c'è, infatti, l'America sussurrata degli amanti perduti,
il sogno esistenziale degli adolescenti ancora ben provvisti del senso
della vita, la ninna nanna canticchiata agli infanti nelle serate di
luna piena.
E poi c'è l'Africa nera scoperta ai tempi di "Graceland",
la sarabanda di ritmi e colori delle lande brasiliane, l'afrore della
giungla e il calore dei Tropici. E poi, ancora, c'è la sua voce, che
adesso non azzarda più gli arditissimi falsetti dei tempi lontani,
contrassegnati dalla cooperazione con Art Garfunkel, ma è diventata
una sorta di icona pacata e tranquilla, pienamente soddisfatta di sè,
beata di una beatitudine che è difficile rendere a parole: e forse è
meglio così. E poi, ancora e ancora, c'è quel suo senso così
meravigliosamente geometrico della costruzione della canzone,
complesso eppure così semplice, che certo è il massimo che si possa
chiedere a un cantore dei giorni nostri. Ed è proprio per questo che
il suo canzoniere - certo non sterminato come quello del suo intimo
amico Bob Dylan, ma sicuramente ben nutrito e polposo - rivela una
straordinaria unità stilistica, pur nell'estrema diversità fra le
creazioni di ieri e quelle di oggi. Ed è per questo che il
"suo" pubblico, antico e giovanissimo insieme, canta
all'unisono con lui non soltanto gli "evergreen" di sempre,
ma anche canzoni nuovissime come "Darling Lorraine". "E
questo incredibile entusiasmo mi ha alquanto sorpreso, per non dire
commosso", dichiara lui a fine concerto con grande pacatezza, ma
con gli occhi ancora lucidi di felicità.
Che
altro dire, che non sia già stato detto, del concerto di sabato sera?
Forse che il Piccolo Grande Uomo dimostra di essere uno
"storyteller" perfetto nel miscelare il vecchio con il
nuovo: la saggezza introversa di "That's where I belong" con
la sarabanda ritmica di "Graceland", la pulizia
interpretativa di "Me and Julio down to the schoolyard" con
il turbinìo di "Hurricane eye", il toccante epitaffio di
"Old friends" (dedicata più o meno esplicitamente all'ombra
sempre più lontana di Garfunkel) con il dramma amoroso, e tragicomico
insieme, di "Darling Lorraine". Forse che soltanto lui
avrebbe potuto trattare il tema della vecchiaia con l'acutezza e il
soave senso del distacco dimostrati in "Old": dove il
procedere dell'età del protagonista (e cioè di lui medesimo) viene
affrescato in parallelo con quello di Maometto, di Gesù Cristo e
dello stesso Dio Creatore. Forse che un autentico "stato di
grazia" gli ha consentito di trasformare il suo hit per
eccellenza, "Bridge over troubled water", in una ballata
lenta e quasi allucinata, sospesa dentro un'ovatta di luce blu.
Un oceano, forse. Il Paradiso, più probabilmente. |