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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Natacha Atlas
gedida
anche in musica per golosi

 

Trasferirsi a Northampton, nel cuore
più cupo e malinconico dell’Inghilterra industriale, dopo aver trascorso l’intera giovinezza nel quartiere arabo di Bruxelles. 
Messa in termini tanto crudi, la faccenda potrebbe sembrare la trasposizione geografica del famoso

aforisma di Freak Antoni: quello per cui "la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo". Un maledettissimo accidente, insomma, in grado di mettere ko anche il più tetragono dei combattenti. Ma per Natacha Atlas, dolce fanciulla di ascendenze per metà palistinesi e per metà egiziane, questa interminabile odissea fra due città parimenti improbabili si è trasformata, alla fine, in un autentico pellegrinaggio alla Mecca. Perché a Bruxelles, nello "slum" islamico, grazie all’aiuto provvidenziale di genitori e zii, ha messo a punto i caposaldi fondamentali dello "shaabi" (cioè del pop egiziano di questi ultimi anni) e della "belly dance", o danza del ventre che dir si voglia. E invece a Northampton, a dispetto della miserevole tetraggine della vita quotidiana, il destino l’ha portata a imbattersi nelle propaggini estreme della "techno" inglese d’avanguardia, quella architettata da nomi come Asian Dub Foundation, Talvin Singh e Transglobal Underground. Di modo che miss Atlas, una volta trasferitasi definitivamente a Londra dopo un’altra rapidissima capatina in quel di Bruxelles, ha potuto ragionevolmente affermare di aver imparato l’arte e di averla messa giudiziosamente da parte. In attesa di giorni migliori.

Giorni che stanno arrivando proprio ora, allo scadere del secondo millennio, grazie a un tour europeo che ha toccato anche Milano (la Festa della Musica dello scorso mese di giugno) e il Montreux Jazz Festival, dove alcune centinaia di fans hanno atteso fino alle 2 del mattino pur di vederla comparire sull’enorme palcoscenico dell’Auditorium Stravinski. Giorni che lei ha preparato con una pazienza e una metodicità degne di miglior causa, dapprima collaborando come "vocalist" e "belly dancer" con i già citati Transglobal Underground, e poi realizzando in proprio tre album interessantissimi - "Diaspora", "Halim" e "Gedida", tutti editi dalla Beggars Banquet - dove prende forma e vigore un’osmosi nuovissima, e potenzialmente esplosiva, fra Oriente e Occidente. Una sorta di "Islam pop", per dirla con una formuletta ultra-sintetica, in cui le millenarie salmodie vocali d’Arabia leggiadramente copulano con le macchine da ritmo metropolitane, e gli strumenti della tradizione più pura - l’oud, il bouzouki, le tablas, il dulcimer, il riqq, il bendir - si alternano con grandissima naturalezza con lo "scratch" dei di-gei più tendenziosi d’oltre Manica.

A proposito di questo originalissimo métissage, che in Francia vanta già legioni di adepti e promette di essere il "must" per antonomasia dei mesi che verranno, la minuscola Natacha - 156 centimetri tacchi compresi, incantevoli occhi verdi, forme giunoniche come si conviene a ogni "belly dancer" di razza - dimostra di avere le idee meravigliosamente chiare. «Qualcuno ha definito "nuovo raï" questo mix, mettendolo indirettamente in relazione con le cose che fanno Khaled, Cheb Mami, Rachid Taha e Bellemou Messaoud: ma io non sono per niente d’accordo», dice decisa.«Io infatti, vuoi per questioni familiari, vuoi per sentimenti profondi, sono molto più vicina a un modo egiziano di intendere le cose, piuttosto che algerino. Per questo trascorro al Cairo tutto il tempo libero che mi rimane fra un tour e l’altro: per migliorare sempre più la mia conoscenza della lingua e della musica arabe. Per questo i miei modelli di riferimento privilegiato sono i grandi cantanti della tradizione egiziana antecedente allo "shaabi". Tutta gente che potrebbe interagire benissimo con i "miei" mostri sacri d’Occidente: Sinead O’ Connor, Asian Dub Foundantion e, soprattutto, Björk, una chanteuse con cui mi piacerebbe moltissimo collaborare in futuro».

Se questi sono i desideri del domani, l’oggi di Natacha è contrappuntato da canzoni salmodiate un po’ in arabo e un po’ in inglese, fascinosamente fluttuanti attorno a quel "tono di indeterminatezza" che pare essere la cifra essenziale della musica mediorientale. Sono ballate leggiadre e impalpabili, le sue, che cantano soprattutto l’amore, il sentimento e le emozioni senza tempo. Come in "Bahlam", dove volteggiano leggerissimi «i sogni di tante ragazze che non sono mai cambiate da mille anni a questa parte». O come in "Mon amie la rose", che è «un rifacimento a modo mio, vorrei dire in forma di lamento, di una delicatissima canzone interpretata da Françoise Hardy più di trent’anni fa». E se i temi di natura politica e sociale rimangono per il momento totalmente preclusi, in questo universo soffice come la rugiada di primo mattino, il perché è presto detto. «Il mio desiderio più grande è che i miei dischi vengano ascoltati e diffusi anche in Egitto», racconta miss Atlas con grande convinzione. «E da quelle parti, nonostante ci siano state negli ultimi anni alcune timide aperture, parlare di queste faccende è ancora proibito. Quindi... meglio andare con i piedi di piombo, con la speranza che prima o poi qualcosa succeda». E non c’è alcun dubbio che le cose andranno proprio così. Nulla è precluso a chi è riuscito ad agguantare il successo a dispetto di quel tremendo handicap di partenza: partire da Bruxelles per arrivare a Northampton.

  Di Roberto Gatti

English text

email: info@mybestlife.com


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