compositore e strumentista francese, una decina di dischi all’attivo
a partire dall’ormai leggendario "Libre parcours" del
1988. Ma, oltre che di culto, Aubry è anche un tipico "musicista
circolare", per riprendere la bella immagine coniata da Ivo
Franchi, critico musicale del "Giorno". Circolare in senso
geografico, se si guarda la traiettoria che l’ha trasportato dai
Vosgi natii a Parigi, e poi a Venezia (dove ha conosciuto la
danzatrice americana Carolyn Carlson, sua musa ispiratrice nella
musica e anche in un lungo tratto di vita) e poi di nuovo a Parigi. E
circolare in senso più strettamente estetico, perché la musica che
fa, così onirica e sapientemente "visiva", pare davvero
disporsi lungo la serie infinita di punti di una circonferenza
immaginaria. Dove, a tratti, compaiono richiami a Michael Nyman e a
Steve Reich, a tratti giochi di prestigio in perfetto stile Penguin
Café Orchestra, a tratti echi di moduli popolari, rimandi all’adorato
mondo celtico, languori che rievocano persino atmosfere à la Nino
Rota, di cui il nostro René è, da sempre, un ammiratore sfegatato.
Proprio
in questa veste, poliedrica e rigorosamente acustica, monsieur Aubry
si è presentato al pubblico milanese - entusiasta e "caldo"
come in un appuntamento heavy metal - la sera di lunedì 19 marzo, al
teatro Franco Parenti di via Pier Lombardo. Si è presentato
puntualissimo, alle 9 della sera, in camicia, jeans e perentoria coda
di cavallo a legare i lunghissimi capelli color sale e pepe. Dapprima
da solo, per affrescare alla chitarra uno dei "pezzi forti"
- "Petite cascade" - del suo ultimissimo lavoro,
"Plaisirs d’amour". Poi in compagnia della sua
scintillante orchestrina: Marco Quesada alla chitarra, Stefano
Genovese al pianoforte e alle tastiere, Daniel Beaussier ai
clarinetti, Marc Buronfosse al contrabbasso, Antoine Banville alle
percussioni, Jean-Marc Ladet al violino. E con loro ha iniziato a
prendere forma la nuova dimensione estetica fortemente voluta e
ricercata da Aubry: "la stessa che sarà presente nel mio
prossimo disco in uscita a ottobre, con la chitarra al centro dello
schieramento: perché, essenzialmente, io continuo a essere un
"semplice" chitarrista".
La
dichiarazione suona alquanto "understated", come si conviene
a un tipo schivo e appartato qual è Aubry, ed è un perfetto pendant
della musica ascoltata l’altra sera: dolce, ipnotica, soavemente
melodica e accattivante. E occorre dire che è stata una
piacevolissima sorpresa ascoltare in questa dimensione così raccolta
e intimistica temi a suo tempo concepiti in chiave moderatamente
elettronica come "Prima Donna", "Facéties",
"Sirtaki à Helsinki", "Scirocco", "Zig
zag", la travolgente "Night run". Ed è stato un vero
piacere per l’orecchio assaporare l’infinita varietà di timbri,
sfumature e colori degli arrangiamenti, e la mirabile maestria
strumentale dei solisti di turno: primi fra tutti Daniel Beaussier al
clarinetto basso (dalla sonorità calda e avvolgente, felicemente
memore della lezione di Eric Dolphy) e Antoine Banville alle
"percussioni anomale" (le maracas legate con un cordino per
tornare fra le mani come uno yo-yo, i legni utilizzati per battere le
tavole del palco, il cassone su cui stava seduto percosso a mani
nude...).
Ma,
forse, la sopresa più entusiasmante e inaspettata è giunta a fine
concerto. Quando monsieur Aubry ha deciso di farci assaporare la sua
splendida voce - evocativa, fumosa e misteriosa come quella di un
Brassens - per modulare un paio di canzoni. Dapprima la curiosa
"Take my hand", con liriche (apparentemente banali) di
Carolyn Carlson. Poi, fra lo stupore generale, "Ho visto Nina
volare", dell’indimenticabile Fabrizio De Andrè. Ed è stato
proprio qui, nel riascoltare quella tagliente meraviglia sonora -
"Mastica e sputa, da una parte il miele; mastica e sputa, dall’altra
la cera" - che l’incanto si è trasformato dapprima in
commozione, e poi in tripudio. Con un applauso che sembrava non finire
mai. |